Vittoria Archilei come 'Armonia doria' nell'Intermezzo 'L’armonia delle sfere' (da 'La pellegrina', 1589) |
La storia della vocalità solistica inizia con l'invenzione del melodramma in Italia nel periodo del tardo Rinascimento - primo Barocco.
Uno degli iniziatori fu il celebre Giulio Caccini, detto Giulio Romano, tenore e compositore (Roma verso il 1550 - Firenze 1618), allievo di Scipione del Palla.
Il Del Palla viene anche ricordato sotto il nome di "del Palle", dal Dentice nei suoi "Duo dialoghi della musica" (1552), come uno dei "iperfettissimi musici [che] cantano miracolosamente", protagonisti di uno spettacolo tenutosi nella casa di donna Giovanna d'Aragona, moglie di Ascanio Colonna. Tra le testimonianze postume sul Del Palla è di particolare rilievo il riferimento al musicista da parte di Caccini nella Introduzione delle sue 'Nuove musiche' (1601), dove egli cita il suo maestro, dichiarando di avere appreso da lui "la nobile maniera di cantare". Tale notizia trova conferma nella "Dedica di canoni vari sopra un soggetto solo" (1612) di Antonio Brunelli, in cui si legge che avendo Cosimo I de' Medici fatto trasferire (nel 1560 c.) il giovane Caccini da Roma a Firenze, lo affidò all'insegnamento del "primo cantante del secolo Scipione dalle Palle".
Giulio Caccini |
Musico di corte presso i Medici, Caccini fece parte del cenacolo umanistico della Camerata de' Bardi e, con V. Galilei, E. Del Cavaliere, J. Peri, si fece propugnatore del "recitar cantando", ossia dello stile monodico, più aderente al contenuto dei testi lirici o drammatici, contro quello polifonico.
Jacopo Peri |
Già nel 1594 sembra ch'egli abbia in tal senso collaborato con il Peri per la "Dafne", che venne rappresentata a Firenze nel palazzo di Jacopo Corsi durante il Carnevale del 1597. Alla fine del 1601 pubblicò una sua "Euridice", un primo esempio di melodramma, di pochissimo posteriore a quella del Peri (al quale seguirono l' "Orfeo" e l' "Arianna" di Monteverdi rispettivamente del 1607 e del 1608 - genere quello dell'opera lirica italiana che fece gran fortuna per diversi secoli fino almeno alla "Turandot" di Puccini composta nel 1924 ma rappresentata postuma nel 1926, ed agli ultimi esempi rilevanti quali "Il diavolo in giardino" di Mannino del 1963 e l' "Ulisse" di Dallapiccola del 1968).
Nel 1601 pubblicò anche "Le nuove musiche" (madrigali e arie a una voce), composte dal 1592 in poi. Nel 1613 vi aggiunse altra pubblicazione analoga, il "Fuggilotio musicale".
Come si può leggere nel Dizionario Biografico Treccani: l'arte del Caccini rappresenta la rinascita - contro la polifonia, egemonica ormai da 4 secoli - dello stile monodico. L'artista, come il Peri, a tanto riuscì trasfigurando lo stile semi-popolaresco e insieme virtuosistico dei cosiddetti "cantori al liuto" secondo il gusto e il pensiero del tardo Umanesimo, sotto l'impulso dei nuovi sensi "drammatici" e esplicitamente "rappresentativi".
Elementi fondamentali della struttura operistica del Caccini sono il recitativo e l'arioso, che si dispiegano, senza limiti apparenti, in un discorso interrotto soltanto da brevi cori. A questo tipo si richiameranno in seguito i grandi rinnovatori del melodramma. E recitativo e arioso si trovano anche nelle musiche vocali da camera. In tutta l'opera del Caccini si mostra del resto in piena luce l'unità dell'ispirazione, nascente dalla commossa intonazione della poesia (nei recitativi) ed elevata in dolci volute di puro canto, strofico, o ampiamente arioso.
Anche le figlie, Francesca e Settimia, seguirono le orme del padre.
FRANCESCA CACCINI detta la Cecchina
Musicista (nata a Firenze nel 1587 - morta probabilmente a Lucca nel 1640 circa), figlia e allieva di Giulio Caccini. Fu celebre quale virtuosa di canto e quale compositrice di cantate e altre musiche profane e di lavori scenici: "Il ballo delle Zigane" (1615); "La liberazione di Ruggiero dall'isola di Alcina" (1625); "Rinaldo innamorato".
Musicista (nata a Firenze nel 1587 - morta probabilmente a Lucca nel 1640 circa), figlia e allieva di Giulio Caccini. Fu celebre quale virtuosa di canto e quale compositrice di cantate e altre musiche profane e di lavori scenici: "Il ballo delle Zigane" (1615); "La liberazione di Ruggiero dall'isola di Alcina" (1625); "Rinaldo innamorato".
SETTIMIA CACCINI (Firenze, 6 ottobre 1591 - 1638 circa) - Era la figlia minore del compositore Giulio Caccini e della cantante Lucia Gagnolanti, nonché sorella di Francesca Caccini (compositrice e cantante) e di Pompeo Caccini, anch'egli cantante. Secondo Severo Bonini, ella si guadagnò una reputazione immortale per il modo in cui padroneggiava l'arte del canto.
Avviata al canto e alla composizione probabilmente dal padre, già nell'ottobre 1600, all'età di soli 9 anni, si esibì insieme alla sorella nell'opera "Il rapimento di Cefalo", composta dal padre su libretto di Gabriello Chiabrera per la corte fiorentina, in occasione delle nozze di Maria de' Medici con Enrico IV di Francia. Due anni dopo, cantò anche nell' "Euridice", sempre su musica del padre. Nel 1604, la famiglia Caccini fu invitata alla corte francese, dove si trattenne per 6 mesi, e lungo il viaggio si esibì presso le corti di Modena e di Torino. Nel 1608, fu a Mantova per cantare il ruolo di Venere ne "L'Arianna" di Claudio Monteverdi, opera la cui musica è andata perduta ad eccezione del Lamento d'Arianna.
L'anno successivo, sposò il compositore lucchese Alessandro Ghivizzani, anch'egli al servizio della corte fiorentina. Tuttavia, nell'ottobre entrambi lasciarono Firenze, senza permesso, per raggiungere Lucca. Qui, entrarono al servizio del duca Ferdinando Gonzaga, che portò Settimia alla corte mantovana, dove era tenuta in grande considerazione. La coppia restò a Mantova fino al 1620, quando tornarono a Lucca. Nel 1622 si stabilirono a Parma; qui, Settimia sostenne il ruolo di Didone in un intermedio e di Aurora in "Mercurio e Marte" (1628), entrambi con musiche di Monteverdi. Tornò poi a Firenze dopo la morte del consorte, dove fu ripresa al servizio dalla corte dei Medici. Nel 1637 cantò ne "Le nozze degli dei" di Giovanni Carlo Coppola.
Della sua produzione compositiva, ci sono giunti solamente 8 brani vocali. A differenza della sorella Francesca, non pubblicò nessuna raccolta di composizioni a suo nome, ed è probabilmente solo per questo motivo che il suo nome oggi è molto meno noto di quello della sorella. Le arie giunte fino a noi hanno forma strofica (che significa che ogni stanza del testo viene cantata sulla medesima musica) e sono scritte in un fluido stile melodico.
Scriveva il celebre tenore di Lanuvio (Roma) Giacomo Lauri-Volpi di Caccini:
<<Creatore della scuola del Belcanto – bello perché emotivo ed espressivo, da distinguersi, come abbiamo precisato, da quello decorativo – fu il romano Giulio Caccini, che da Roma si trasferì a Firenze, ove fondò la scuola di canto in cui fiorirono le voci delle figlie Francesca e Settimia: scuola basata sulla passione profonda e la parola adeguata e sulla chiarezza della dizione in armonia con la tradizionale, romana “concinnitas”. Il “recitar cantando”, proprio di questo stile rappresentativo, portò alla libertà melodica e a un rinnovamento della tecnica del suono cantato.
<<Creatore della scuola del Belcanto – bello perché emotivo ed espressivo, da distinguersi, come abbiamo precisato, da quello decorativo – fu il romano Giulio Caccini, che da Roma si trasferì a Firenze, ove fondò la scuola di canto in cui fiorirono le voci delle figlie Francesca e Settimia: scuola basata sulla passione profonda e la parola adeguata e sulla chiarezza della dizione in armonia con la tradizionale, romana “concinnitas”. Il “recitar cantando”, proprio di questo stile rappresentativo, portò alla libertà melodica e a un rinnovamento della tecnica del suono cantato.
Nel suo insegnamento, il Caccini fu un rinnovatore della ortofonia vocale e uno dei primissimi compositori di melodrammi; egli lasciò scritte interessanti norme del Belcanto. Avvertiva i discepoli di “attaccare il suono appoggiandolo sulla nota immediatamente inferiore”, oppure di “evitare questa appoggiatura e di attaccare invece la nota direttamente ma dolcemente”, come nota “tenuta” che va dal piano al forte e decresce dal forte al piano iniziale (la classica “forchetta” in uso in ogni scuola che si rispetti), di cui si è perduta ogni traccia nel canto lirico attuale, divenuto monotono e meccanico, senza sfumature di fraseggio, privo insomma della tavolozza di colori che vanno dal sussurro delle note a “fior di labbra”, ma “appoggiate”, alla vigorosa espansione dell’esaltazione lirica, che fece degli artisti dell’800 i dominatori delle scene e delle corti di tutta Europa.
Il Caccini, come “fioritura” ammetteva solo il trillo e per agevolarne l’esecuzione valorizzò il gruppetto, che è una delle forme più in uso nel canto fiorito o Belcanto. Nelle opere del Peri, del Caccini, del Monteverdi e successive (Dafne, Euridice, Arianna…) la parola declamata (recitativo) e la parola cantata si alternavano con accompagnamento del solo clavicembalo, la prima, e della rudimentale orchestra, la seconda. In quei tempi il canto non veniva sopraffatto da enormi complessi orchestrali. Senonché la voce solista incominciò, a poco a poco, ad abusare della sua sovranità, e nel ‘700, per il predominio dei soprani-maschi, il Belcanto diventò una esibizione di licenze, gorgheggi e trilli, in cui la parola si diluiva in vocalizzi arditi e sorprendenti.>>
(in: “Belcanto” - voce compilata dal tenore Giacomo Lauri-Volpi, inserita nella “Enciclopedia della musica”, ed. Ricordi, Milano 1963)
--> https://belcantoitaliano.blogspot.com/2017/02/che-cose-il-belcanto-di-giacomo-lauri.html
(in: “Belcanto” - voce compilata dal tenore Giacomo Lauri-Volpi, inserita nella “Enciclopedia della musica”, ed. Ricordi, Milano 1963)
--> https://belcantoitaliano.blogspot.com/2017/02/che-cose-il-belcanto-di-giacomo-lauri.html
Targa che ricorda la camerata dei Bardi su palazzo Busini-Bardi a Firenze |
Già egli anticipa le proprie idee, il 20 dicembre 1600, nella Prefazione all'opera "L'Euridice":
"Nella qual maniera di canto ho io usato una certa sprezzatura, che io ho stimato che abbia del nobile, parendomi con essa di essermi appressato quel più alla natural favella. (...)
Io era stato di parere, con l'occasione presente, di fare un discorso ai lettori del nobil modo di cantare, al mio giudizio il migliore col quale altri potesse esercitarsi, con alcune curiosità appartenenti ad esso, e con la nuova maniera de' passaggi e raddoppiate inventate da me, quali ora adopera, cantando l'opere mie, già è molto tempo, Vittoria Archilei, cantatrice di quella eccellenza che mostra il grido della sua fama. (...)
La qual [maniera] si vide per tutte l'altre mie musiche che son fuori in penna, composte da me più di quindici anni sono in diversi tempi, non avendo ami nelle mie musiche usato altr'arte che l'imitazione de' sentimenti delle parole, toccando quelle corde, più o meno affettuose, le quali ho giudicato più convenirsi per quella grazia che si ricerca per ben cantare; la qual grazia e modo di canto, molte volte mi ha testificato essere stata costà in Roma accettata per buona universalmente V.S. Illustrissima."
"Nella qual maniera di canto ho io usato una certa sprezzatura, che io ho stimato che abbia del nobile, parendomi con essa di essermi appressato quel più alla natural favella. (...)
Io era stato di parere, con l'occasione presente, di fare un discorso ai lettori del nobil modo di cantare, al mio giudizio il migliore col quale altri potesse esercitarsi, con alcune curiosità appartenenti ad esso, e con la nuova maniera de' passaggi e raddoppiate inventate da me, quali ora adopera, cantando l'opere mie, già è molto tempo, Vittoria Archilei, cantatrice di quella eccellenza che mostra il grido della sua fama. (...)
La qual [maniera] si vide per tutte l'altre mie musiche che son fuori in penna, composte da me più di quindici anni sono in diversi tempi, non avendo ami nelle mie musiche usato altr'arte che l'imitazione de' sentimenti delle parole, toccando quelle corde, più o meno affettuose, le quali ho giudicato più convenirsi per quella grazia che si ricerca per ben cantare; la qual grazia e modo di canto, molte volte mi ha testificato essere stata costà in Roma accettata per buona universalmente V.S. Illustrissima."
Vittoria Archilèi (nata Concarini), detta "La Romanina" (Roma, 1550 ca. – Firenze, 1620 ca.), cantante e liutista italiana, fu attiva a Firenze con il marito Antonio Archilei, compositore, cantante e liustista.
Prima interprete (Armonia, 1º intermedio/Anfitrite, 5º intermedio) degli Intermedi della "Pellegrina", per le nozze di Don Ferdinando I de' Medici e Cristina di Lorena a Palazzo Pitti nel 1589, nel 1599 fu la protagonista della prima esecuzione pubblica della "Dafne" di Peri a Palazzo Pitti.
Nel 1600 interpretò Euridice nella prima assoluta della "Euridice" di Peri a Palazzo Pitti.
Nel 1600 interpretò Euridice nella prima assoluta della "Euridice" di Peri a Palazzo Pitti.
Pochi mesi dopo, l'1 febbraio 1601, Caccini espone e sviluppa
compiutamente le sue idee sulla nuova maniera di comporre per voce sola
accompagnata e sul giusto modo di cantare nella raccolta "Le nuove musiche", costituita da 23 brani:
1. Movetevi à pietà - 2. Queste lagrim'amare - 3. Dolcissimo sospiro - 4. Amor, io parto - 5. Non più guerra pietate - 6. Perfidissimo volto - 7. Vedrò'l mio sol - 8. Amarilli, mia bella - 9. Sfogava con le stelle - 10. Fortunato augellino - 11. Dovrò dunque morire? - 12. Filli, mirando il cielo - 13. Ultimo Coro del Rapimento di Cefalo (6 voci o coro misto, CCATTB - Ineffabile ardore, Quand'il bell'anno), Muove sì dolce, Caduca fiamma, Qual trascorrendo - 14. Aria Prima. Io parto, amati lumi - 15. Aria Seconda. Ardi, cor mio - 16. Aria Terza. Ard'il mio petto misero - 17. Aria Quarta. Fere selvaggie - 18. Aria Quinta. Fillide mia - 19. Aria Sesta. Udite, udite, amanti - 20. Aria Settima. Occh'immortali - 21. Aria Ottava. Odi, Euterpe - 22. Aria Nona. Belle rose porporine - 23. Aria Ultima. Chi mi confort'ahimè
"Ai lettori."
Se gli studi della musica fatti da me intorno alla nobile maniera di cantare, dal famoso Scipione del Palla mio maestro appresa, et altre mie composizioni di più madrigali et arie, composti da me in diversi tempi, io non ho fino ad ora manifestati, ciò è addivenuto dal non istimare io: parendo à me che assai di onore ricevessero dette mie musiche, e molto più del merito loro, veggendole continovamente esercitate da i più famosi cantori e cantatrici d'Italia, et altri nobili amatori di questa professione. Ma ora veggendo andare attorno molte di esse lacere e guaste, et inoltre malamente adoperarsi quei lunghi giri di voci semplici e doppi, cioè raddoppiate, intrecciate l'una nell'altra, ritrovate da me per isfuggire quella antica maniera di passaggi che già si costumarono, più propria per gli strumenti di fiato e di corde che per le voci, et altresì usarsi indifferentemente il crescere o scemare della voce, l'esclamazioni, trilli e gruppi, et altri cotali ornamenti alla buona maniera di cantare; sono stato necessitato, et anco mosso da amici, di far istampare dette mie musiche; et in questa mia prima impressione con questo discorso à i Lettori mostrare le cagioni che m'indussero à simil modo di canto per una voce sola, affine che, non essendosi ne' moderni tempi passati costumate (ch'io sappia) musiche di quella intera grazia ch'io sento nel mio animo risonare, io ne possa in questi scritti lasciare alcun vestigio, e che altri possa giungere alla perfezione, chè "Poca favilla gran fiamma seconda".
Io veramente nei tempi che fioriva in Firenze la virtuosissima Camerata dell'Illustrissimo Signor Giovanni Bardi de' Conti di Vernio, ove concorreva non solo gran parte della nobiltà, ma ancora i primi musici et ingegnosi uomini, e Poeti e Filosofi della Città, avendola frequentata anch'io, posso dire d'avere appreso più dai loro dotti ragionari, che in più di trent'anni non ho fatto nel contrappunto; imperò che questi intendentissimi gentiluomini m'hanno sempre confortato, e con chiarissime ragioni convinto, a non pregiare quella sorte di musica, che non lasciando bene intendersi le parole, guasta il concetto et il verso, ora allungando et ora scorciando le sillabe per accomodarsi al contrappunto, laceramento della Poesìa, ma ad attenermi a quella maniera cotanto lodata da Platone et altri Filosofi, che affermarono la musica altro non essere che la favella e'l rithmo et il suono per ultimo, e non per lo contrario, à volere che ella possa penetrare nell'altrui intelletto e fare quei mirabili effetti che ammirano gli scrittori, e che non potevano farsi per il contrappunto nelle moderne musiche: e particolarmente cantando un solo sopra qualunque strumento di corde, che non se ne intendeva parola per la moltitudine di passaggi, tanto nelle sillabe brevi quanto lunghe, et in ogni qualità di musiche, pur che per mezzo di essi fussero dalla plebe esaltati e gridati per solenni cantori. Veduto adunque, si com'io dico, che tali musiche e musici non davano altro diletto fuor di quello che poteva l'armonia dare all'udito solo, poi che non potevano esse muovere l'intelletto senza l'intelligenza delle parole, mi venne pensiero introdurre una sorte di musica, per cui altri potesse quasi che in armonia favellare, usando in essa (come altre volte ho detto) una certa nobile sprezzatura di canto, trapassando talora per alcune false, tenendo però la corda del basso ferma, eccetto che quando io me ne volea servire all'uso comune, con le parti di mezzo tocche dall'istrumento per esprimere qualche affetto, non essendo buone per altro. La onde, dato principio in quei tempi à questi canti per una voce sola, parendo à me che avessero più forza per dilettare e muovere, che le più voci insieme, composi in quei tempi, i madrigali "Perfidissimo volto"; "Vedrò 'l mio Sol"; "Dovrò dunque morire", e simili; e particolarmente l'aria sopra l'Egloga del Sanazzaro "Itene a l'ombra degli ameni faggi", in quello stile proprio, che poi mi servì per le favole che in Firenze si sono rappresentate cantando. I quali Madrigali, et Aria uditi in essa camerata con amorevole applauso et esortazioni ad eseguire il mio presupposto fine per tal camino, mi mossero a trasferirmi à Roma per darne saggio anche quivi: ove fatti udire detti madrigali et aria in casa del signor Nero Neri à molti gentilhuomini, che quivi s'adunavano, e particolarmente al signor Lione Strozzi, tutti possono rendere buona testimonianza quanto mi esortassero a continovare l'incominciata impresa, dicendomi perfino à quei tempi non avere udito mai armonia d'una voce sola, sopra un semplice strumento di corda, che avesse avuto tanta forza di muovere l'affetto dell'animo quanto quei madrigali; sì per lo nuovo stile di essi, come perchè costumandosi anco in quei tempi per una voce sola i madrigali stampati a più voci, non pareva loro, che per l'artifizio delle parti corrispondenti fra loro, la parte sola del soprano di per sola cantata avesse in sè affetto alcuno. Onde ritornato io a Firenze, e considerato che altresì in quei tempi si usavano per i musici alcune canzonette per lo più di parole vili, le quali pareva a me che non si convenissero, e che tra gli uomini intendenti non si stimassero; mi venne anco pensiero, per sollevamento tal volta degli animi oppressi, comporre qualche canzonetta a uso di aria per potere usare in conserto di più strumenti di corde; e comunicato questo mio pensiero a molti gentiluomini della città, fui compiaciuto cortesemente da essi di molte canzonette di misure varie di versi, sì come anche appresso dal signor Gabriello Chiabrera, che in molte copie, et assai diversificate da tutte l'altre ne fui favorito, prestandomi egli grande occasione d'andar variando, le quali tutte composte da me in diverse arie, di tempo in tempo, state non sono poi disgrate eziandio a tutta Italia, servendosi ora di esso stile ciascuno che ha volsuto comporre per una voce sola, e particolarmente qui in Firenze: ove stando io già trenta sette anni a gli stipendi di questi Serenissimi Principi, mercè della loro bontà qualunque ha volsuto ha potuto vedere et udire a suo piacere tutto quello che di continuo ho operato intorno a sifatti studi. Ne i quali, cosi ne madrigali come nelle arie, ho sempre procurata l'imitazione de i concetti delle parole, ricercando quelle corde più e meno affettuose, secondo i sentimenti di esse, e che particolarmente avessero grazia, avendo ascosto in esse quanto più ho potuto l'arte del contrappunto, e posato le consonanze nelle sillabe lunghe, e fuggito le brevi et osservato l'istessa regola nel fare i passaggi: benché per un certo adornamento io abbia usato talora alcune poche crome, fino al valor di un quarto di battuta o una mezza il più sopra sillabe brevi per lo più, le quali, perchè passano tosto e non sono passaggi ma un certo accrescimento di grazia, si possono permettere, et anco per che il giudicio speciale fa ad ogni regola patire qualche eccezione.
Ma, perchè di sopra io ho detto essere malamente adoperati quei lunghi giri di voce, è d'avvertire che i passaggi non sono stati ritrovati per che siano necessarii alla buona maniera di cantare, ma credo io piuttosto per una certa titillazione a gli orecchi di quelli che meno intendono che cosa sia cantare con affetto; chè, se ciò sapessero, indubitatamente i passaggi sarebbero abborriti, non essendo cosa più contraria di loro all'effetto. Onde per ciò ho detto malamente adoprarsi que' lunghi giri di voce, però che da me sono stati introdotti così per servirsene in quelle musiche meno affettuose, e sopra sillabe lunghe, e no brevi, et in cadenze finali; non facendo di mestieri nel resto intorno alle vocali altra osservanza per detti lunghi giri se non che la vocale "u" fa miglior effetto nella voce del soprano che del tenore, e la vocale "i" meglio nel tenore che la vocale "u"; essendo le rimanenti tutte in uso comune, sebbene più sonore le aperte che le chiuse, come anco più proprie e più facili per esercitare la disposizione. Et acciò che ancora, seppure si debbono questi giri di voce usare, si facciano con qualche regola nelle mie opere osservata, e non a caso sulla pratica del contrappunto, onde sarebbe di mestieri pensarli prima nelle opere che altri vuol cantar solo, e fare maniera in essi, ne promettersi che il contrappunto sia bastevole: però che alla buona maniera di comporre e cantare in questo stile serve molto più l'intelligenza del concetto e delle parole, il gusto e l'imitazione di esso così nelle corde affettuose come nello esprimerlo con affetto cantando, che non serve il contrappunto; essendomi io servito di esso per accordar solo le due parti insieme e sfuggire certi errori notabili, e legare alcune durezze più per accompagnamento dello affetto che per usar arte; sì come anco si vede, che migliore effetto farà e diletterà più un'aria o un madrigale in cotale stile composto su 'l gusto del concetto delle parole datele, che abbia buona maniera di cantare, che non farà un altro con tutta l'arte del contrappunto; di che non si potrà rendere migliore ragione che la prova istessa. Tale adunque furono le cagioni, che m' indussero a simile maniera di canto per una voce sola: e dove, et in che sillabe et vocali si deono usare i lunghi giri di voce. Resta ora a dire perchè il crescere e scemare della voce, l'esclamazioni, trilli e gruppi, e gli altri effetti sopra detti siano indifferentemente usati, perocchè allora si dicono usarsi indifferentemente ogni volta che altri se ne serve tanto nelle musiche affettuose, ove più si richieggono, quanto nelle canzonette a ballo. La radice del qual difetto (se non m'inganno) è cagionata perchè il musico non ben possiede prima quello che egli vuol cantare: e se ciò fosse, indubitatamente non incorrerebbe in cotali errori, sì come più facilmente incorre quel tale, che formatosi una maniera di cantare, verbi grazia, tutta affettuosa con una regola generale, che nel crescere e scemare della voce, e nelle esclamazioni sia il fondamento di esso affetto, sempre se ne serve in ogni sorte di musica, non discernendo se le parole il richieggono; là dove coloro, che bene intendono i concetti e i sentimenti delle parole conoscono i nostri difetti, e sanno distinguere ove più e meno si richieggia esso affetto: a' quali si deve procurare con ogni studio di sommamente piacere, e pregiare più la lode loro che l'applauso del vulgo ignorante.
Quest'arte non patisce la mediocrità, e quanto più squisitezze per l'eccellenza sua sono in lei, con tanta più fatica e diligenza le dovemo noi, professori di essa, ritrovare con ogni studio et amore; il quale amore ha mosso me (vedendo io che dalli scritti abbiamo lume d'ogni scienza e d'ogni arte) a lasciarne questo poco di spiraglio nelle note appresso, e discorsi: intendendo io di mostrare quanto appartiene a chi fa professione di cantar solo sopra l'armonia di chitarrone o d'altro strumento di corde, pur che già sia introdotto nella teorica di essa musica, e suoni a bastanza. Non già che ella non si acquisti in qualche parte anco per lunga pratica, come si vede che hanno fatto molti, e uomini e donne, sino a un certo segno però; ma perchè la teorica di questi scritti sino al segno sopraddetto fa di mestieri. E perchè nella professione del cantante (per eccellenza sua) non servono solo le cose particolari, ma tutte insieme la fanno migliore, per procedere adunque con ordine dirò, che i primi et più importanti fondamenti sono l'intonazione della voce in tutte le corde, non solo, che nulla non manchi sotto, o cresca di vantaggio, ma abbia la buona maniera, come ella si deve intonare, la quale per essere usata per lo più in due, vedremo e l'una e l'altra, e con le infrascritte note mostreremo quella, che a me parrà più propria per gli altri effetti, che appresso ne seguono. Sono adunque alcuni, che nell'intonazione della prima voce intonano una terza sotto, et alcuni altri detta prima nota nella propria corda, sempre crescendola, dicendosi questa essere la buona maniera per mettere la voce con grazia: la quale, in quanto alla prima, per non essere regola generale, poi che in molte consonanze ella non accorda, benché ov'ella si possa anco usare, è divenuta ormai maniera cotanto ordinaria, che invece d'aver grazia (perchè anco alcuni si trattengono nella terza sotto troppo spazio di tempo, ov'ella vorrebbe a pena essere accennata) direi ch'ella fosse più tosto rincrescevole all'udito, e che per li principianti particolarmente ella si dovesse usare di rado, e come più pellegrina, mi eleggerei in vece di essa la seconda del crescere la voce. Ma perchè io non mi sono mai quietato dentro a i termini ordinarii et usati da gli altri, anzi sono andato sempre investigando più novità a me possibile, pur che la novità sia stata atta a poter meglio conseguire il fine del musico, cioè di dilettare e muovere l'affetto dell'animo, ho trovato essere maniera più affettuosa lo intonare la voce per contrario effetto all'altro, cioè intonare la prima voce scemandola, però che l'esclamazione, che è mezzo più principale per muovere l'affetto (et l'esclamazione propriamente altro non è, che nel lassare della voce rinforzandola alquanto) et tale accrescimento di voce nella parte del soprano, massimamente nelle voci finte, spesse volte diviene acuto, et impatibile all'udito, come in più occasioni ho udito io. Indubitatamente adunque, come affetto più proprio per muovere, miglior effetto farà l'intonare la voce scemandola, che crescendola; però che nella detta prima maniera, crescendo la voce per far l'esclamazione, fa di mestiero poi nel lasciar di essa crescerla di vantaggio: e però ho detto ch'ella apparisce sforzata e cruda. Ma tutto il contrario effetto farà nello scemarla, poi che nel lassarla, il darle un poco più spirto la renderà sempre più affettuosa; oltre che, usando anco tal volta or l'una et or l'altra, si potrà variare, essendo molto necessaria la variazione in quest'arte, purché ella sia indiritta al fine detto. Di maniera che, se questa è quella maggior parte della grazia nel cantare atta a poter muovere l'affetto dell'animo in quei concetti di vero ove più si conviene usare tali affetti, e se si dimostra con tante vive ragioni, ne viene in conseguenza di nuovo, che da gli scritti s'impara altresì quella grazia più necessaria che in miglior maniera e maggior chiarezza per sua intelligenza non si può descrivere, e nondimeno si può acquistare perfettamente, pur che dopo lo studio della teorica e regole dette, si ponga in atto quella pratica [per] la quale in tutte le arti si diviene più perfetto, ma particolarmente nella professione e del perfetto cantore e della perfetta cantatrice.
Di quello adunque, che possa essere, con maggiore minor grazia intonato nella maniera detta, se ne può fare esperienza nelle soprascritte note con le parole sotto "Cor mio deh non languire"; però che nella prima minima col punto si può intonare "Cor mio" scemandola a poco a poco, nel calar della semiminima crescere la voce con un poco più spirito, e verrà fatta l'esclamazione assai affettuosa per la nota anco, che cala per grado; ma molto più spiritosa apparirà nella parola deh, per la tenuta della nota, che non cala per grado, come anco soavissima poi per la ripresa della sesta maggiore, che cala per salto. Il che ho volsuto osservare, per mostrare altrui, non solo che cosa è esclamazione, e donde nasca, ma che possono essere ancora di due qualità una più affettuosa dell'altra, sì per la maniera con la quale sono descritte, o intonate nell'un modo o nell'altro, come per imitazione della parola quando però ella darà significato con il concetto: oltre che l'esclamazioni in tutte le musiche affettuose per una regola generale si possono sempre usare in tutte le minime e semiminime col punto per discendere, e saranno vie più affettuose per la nota susseguente che corre, che non faranno nelle semibrevi nelle quali darà più luogo il crescere e scemare della voce senza usar le esclamazioni: intendo per conseguenza che nelle musiche ariose, o canzonette a ballo, invece di essi affetti, si debba usar solo la vivezza del canto, il quale suole essere trasportato dall'aria istessa, nella quale, benché talora vi abbia luogo qualche esclamazione, si deve lasciare l'istessa vivezza, e non porvi affetto alcuno che abbia del languido. Il perchè noi venghiamo in cognizione quanto sia necessario per il musico un certo giudizio, il quale suole prevalere talvolta all'arte. Come altresì possiamo ancora conoscere dalle soprascritte note quanta maggior grazia abbiano le prime quattro crome sopra la seconda sillaba della parola languire, così rattenute dalla seconda croma col punto, che le ultime quattro uguali, così descritte per esempio. Ma perchè molte sono quelle cose, che si usano nella buona maniera di cantare che per trovarsi in esse maggior grazia, descritte in una maniera, fanno contrario effetto l'una dall'altra, onde si dice altrui cantare con più grazia o men grazia, mi faranno ora dimostrare prima, in che guisa è stato descritto da me il trillo et il gruppo, e la maniera usata da me per insegnarlo a gli interessati di casa mia, et inoltre poi tutti gli altri effetti più necessarii a ciò non resti squisitezza da me osservata che non si dimostri.
Il trillo, descritto da me sopra una corda sola, non è stato per altra cagione dimostrato in questa guisa, se non perchè nello insegnarlo alla mia prima moglie et ora all'altra vivente, con le mie figliuole, non ho osservato altra regola che la stessa nella quale è scritto, e l'uno e l'altro, cioè il cominciarsi della prima semiminima, e ribattere ciascuna nota con la gola sopra la vocale 'a' fino all'ultima breve, e somigliantemente il gruppo, il qual trillo e gruppo quanto con la suddetta regola fosse appreso in grande eccellenza dalla mia moglie passata lo lascerò giudicare a chiunque ne' suoi tempi l'udì cantare, come altresì lascio nel giudizio altrui, potendosi udire, in quanta squisitezza sia fatta dall'altra mia vivente: che se vero è che l'esperienza sia maestra di tutte le cose, posso con qualche sicurezza affermare e dire non si potere usare miglior mezzo per insegnarlo, nè miglior forma per descriverlo; come si è espresso e l'uno e l'altro.
Il quale trillo e gruppo, per essere scala necessaria a molte cose che si descrivono e sono effetti di quella grazia che più si ricerca per ben cantare e, come sopra è detto, scritte in una maniera o in altra fanno il contrario effetto di quello che fa di mestieri, mostrerò non solo come si possono usare, ma eziamdio tutti essi effetti descritti in due maniere con l'istesso valor delle note, acciò tuttavia venghiamo in cognizione, come sopra si è replicato più volte, che da molti scritti insieme con la pratica si possono imparare tutte le squisitezze di questa arte.
Poiché per le note sopra scritte in due maniere veggiamo d'aver più grazia il numero secondo, che il numero primo, acciò adunque ne possiamo far migliore esperienza, saranno qui appiè descritte alcune di esse con la parola sotto et insieme il Basso per lo Chitarrone, e tutti i passi affettuosissimi con la pratica de' quali altri potrà esercitarsi in loro: et acquistarne ogni maggior perfezione.
E perchè negli ultimi due versi sopra le parole "Ahi dispietato amor", in aria di romanesca e nel madrigale appresso "Deh dove son fuggiti" sono dentro tutti i migliori affetti, che si possono usare intorno alla nobiltà di questa maniera di canti, gli ho voluti perciò descrivere; si per mostrare dove si deve crescere e scemare la voce, a fare l'esclamazioni, trilli e gruppi, et in somma tutti i tesori di quest'arte, come anco per non essere necessitato altra volta a dimostrar ciò in tutte le opere che appresso seguiranno: et acciochè servano per esempio in riconoscere in esse musiche i medesimi luoghi, ove saranno più necessari secondo gli affetti delle parole; avvenga che nobile maniera sia così appellata da me quella che va usata senza sottoporsi a misura ordinata, facendo molte volte il valor delle note la metà meno secondo i concetti delle parole, onde ne nasce quel canto poi in sprezzatura, che si è detto; là dove poiché sono tanti gli effetti da usarsi per l'eccellenza di essa arte, ne è tanto necessaria la buona voce per essi quanto la respirazione del fiato per valersene poi che egli deve cantar solo sopra chitarrone, altro strumento di corde, senza essere forzato accomodarsi ad altri che a se stesso, si elegga un tuono, nel quale possa cantare in voce piena e naturale per isfuggire le voci fìnte; nelle quali per fìngerle, o almeno nelle forzate, occorrendo valersi della respirazione per non discoprirle molto (poiché per lo più sogliono offendere l'udito, e di essa è pur necessario valersi per dar maggiore spirito al crescere e scemare della voce, alle esclamazioni e tutti gli altri effetti che abbiamo mostrati), faccia sì che non gli venga meno poi, ove è bisogno. Ma dalle voci fìnte non può nascere nobiltà di buon canto: che nascerà da una voce naturale comoda per tutte le corde, la quale altrui potrà maneggiare a suo talento, senza valersi della respirazione per altro, che per mostrarsi padrone di tutti gli affetti migliori che occorrono usarsi in siffatta nobilissima maniera di cantare, l'amor della quale e generalmente di tutta la musica acceso in me per inclinazione di. natura, e per gli studi di tanti anni, mi scuserà se io mi fosse lasciato trasportar più oltre, che forse non conveniva a chi non meno stima lo imparare, che il comunicar lo 'mparato, et alla reverenza che io porto a tutti i professori di quest'arte. La quale bellissima essendo, e dilettando naturalmente, allora si fa ammirabile e si guadagna interamente l'altrui amore, quando coloro che la posseggono e con lo insegnare e col dilettare altrui esercitandola spesso, la scuoprono e appalesano per un esempio, e una sembianza vera di quelle inarrestabili armonie celesti, dalle quali derivano tanti beni sopra la terra, svegliandone gli intelletti uditori alla contemplazione dei diletti infiniti in Cielo somministrati.
Conciosiachè io abbia costumato in tutte le mie musiche che son fuori in penna di denotare per i numeri sopra la parte del Basso le terze e le seste maggiori ove è segnato il diesis o minori il "b molle", e similmente, che le settime altre dissonanti siano per accompagnamento delle parti di mezzo; resta ora il dire, che le legature nella parte del Basso in questa maniera sono state usate da me, perchè dopo la consonanza si ripercuota solo la corda segnata, essendo ella la più necessaria (se io non erro) nella propria posta del Chitarrone, e la più facile da usarsi e da farsi pratica in essa, essendo quello strumento più atto ad accompagnare la voce, e particolarmente quella del Tenore, che qualunque altro; lasciando nel rimanente in arbitrio di chi più intende, il ripercuotere con il Basso quelle corde, che possono essere il migliore intendimento loro, che più accompagneranno la parte che canta sola, non si potendo fuori della 'ntavolatura, per quanto io conosco, descriverlo con più facilità (1).
Ma intorno a dette parti di mezzo si è veduta osservanza singolare in Antonio Naldi, detto il Bardella, gratissimo servitore a queste Altezze 'Serenissime, il quale sì come veramente ne è stato l'inventore, così è reputato da tutti per lo più eccellente che sino a nostri tempi abbia mai sonato di tale strumento, come con loro utilità fanno fede i professori e quelli che si dilettano nell'esercizio del Chitarrone; se già egli non avvenisse a lui quello che ad altri più volte accaduto è: cioè che altri si vergognasse l'avere imparato dalle discipline altrui, come se ciascuno potesse dovesse essere inventore di tutte le cose, e come se e' fusse tolto all'ingegno degli uomini di poter sempre andar ritrovando nuove discipline ad argumento di propria gloria, et al giovamento comune.
Lo Stampatore a' Lettori.
La dilazione del tempo dal dì della dedicatoria di quest'opera, che fu al primo di febbraio, sino a questo ultimo di giugno, nel quale e sottoscritta la licenzia dei
Superiori, apparirebbe e lunga e difforme se il discreto Lettore non fusse avvertito che dopo il cominciamento della stampa la lunga infermità dell'autore, e la infermità e morte di Giorgio Marescotti mio Padre, sono state vere cagioni e spiacevoli di diversificare i giorni e le date.
(1) Qui termina nell'edizione del 1615.
Circa dodici anni più tardi, nel 1614, Caccini riparlerà di canto, nella successiva raccolta intitolata "Nuove musiche e nuova maniera di scriverle", costituita da 36 brani:
1. A quei sospir ardenti - 2. Alme luci beate - 3. Se in questo scolorito languido volto - 4. S'io vivo, anima mia - 5. Se ridete gioiose - 6. Ohimè, begli occhi - 7. Dite o del foco mio - 8. O' dolce fonte del mio pianto - 9. Ch'io non t'ami cor mio - 10. Hor che lungi da voi - 11. Pien d'amoroso affetto - 12. Amor l'ali m'impenna - 13. Se voi lagrime a pieno - 14. Vaga su spin'ascosa - 15. La bella man vi stringo - 16. Tutto 'l dì piango - 17. In tristo umor - 18. Lasso, che pur - 19. Più l'altrui fallo - 20. Torna, deh torna : romanesca - 21. Io, che l'età solea viver nel fango - 22. Di seguir falso duce - 23. E poi ch'a mortal rischio - 24. Reggami per pietà - 25. Deh chi d'alloro - 26. Già non l'allaccia - 27. Mentre che fra doglie e pene - 28. Non ha 'l ciel cotanti lumi - 29. Amor ch'attendi - 30. O piante, o selve ombrose - 31. Tu ch'hai le penne Amore - 32. Al fonte, al prato - 33. Aur'amorosa - 34. O che felice giorno - 35. Dalla porta d'oriente - 36. con le luci d'un bel ciglio
1. A quei sospir ardenti - 2. Alme luci beate - 3. Se in questo scolorito languido volto - 4. S'io vivo, anima mia - 5. Se ridete gioiose - 6. Ohimè, begli occhi - 7. Dite o del foco mio - 8. O' dolce fonte del mio pianto - 9. Ch'io non t'ami cor mio - 10. Hor che lungi da voi - 11. Pien d'amoroso affetto - 12. Amor l'ali m'impenna - 13. Se voi lagrime a pieno - 14. Vaga su spin'ascosa - 15. La bella man vi stringo - 16. Tutto 'l dì piango - 17. In tristo umor - 18. Lasso, che pur - 19. Più l'altrui fallo - 20. Torna, deh torna : romanesca - 21. Io, che l'età solea viver nel fango - 22. Di seguir falso duce - 23. E poi ch'a mortal rischio - 24. Reggami per pietà - 25. Deh chi d'alloro - 26. Già non l'allaccia - 27. Mentre che fra doglie e pene - 28. Non ha 'l ciel cotanti lumi - 29. Amor ch'attendi - 30. O piante, o selve ombrose - 31. Tu ch'hai le penne Amore - 32. Al fonte, al prato - 33. Aur'amorosa - 34. O che felice giorno - 35. Dalla porta d'oriente - 36. con le luci d'un bel ciglio
Ai discreti lettori.
Molti anni avanti che io mettessi alcuna delle mie opere di musica, per una voce sola, alla stampa, se ne eran vedute fuora molte altre mie, fatte in diversi tempi et occasioni, delle quali furono più note la musica che io feci nella favola della "Dafne" del Sig. Ottavio Rinuccini, rappresentata in casa del Sig. Jacopo Corsi d'onorata memoria, à quest'Altezze Serenissime et altri Principi; mà le prime che io stampassi furon le musiche fatte l'anno 1600 nella favola dell'Euridice, opera del medesimo autore: e furon le prime che si vedesser date in luce in Italia da qualunque compositore di tale stile à una voce sola; diedi appresso fuore l'anno 1601 quelle che io intitolai "Le nuove musiche" e con quelle pubblicai un discorso, nel quale si contiene (s'io non erro) tutto quello che può desiderare chi professi di cantar solo. E veduto al presente quanto l'universale abbracci e gradisca questa mia maniera di cantar solo, la quale io scrivo giustamente, come si canta, e quanto sia preferito à gli altri per lo spaccio che di tal opere hanno avuto gli stampatori, e considerato quanto, oltre al cantar solo, sia stata gradita la maniera delle musiche dei cori di dette favole, e l'invenzione di essi, e d'altre favole fatte poi, dove parimenti ho fatto diverse arie secondo che richiedevano i diversi affetti di tali cori, chiare e armoniose, mi son resoluto a stampar di nuovo quest'altre mie, alcune delle quali sono scritte nell'istessa maniera, che conviene che siano cantate, avendo segnato sopra la parte, che canta, e trilli e gruppi et altri nuovi affetti non più veduti per le stampe, e con passaggi più proprij per la voce: ne i quali passaggi per hora non hò voluto mostrare altra varietà in essi, essendomi questi parsi a bastanza per vero esercizio in quest'arte, non havendo havuto riguardo à replicar più volte i medesimi, potendo esser questi scala ad altri più difficili, come ad altro tempo si mostrerà. Alcune ce n'ho inserte, le quali tal'ora cantano in voce di tenore e tal'hora di basso, con passaggi più propri per amendue le parti: e queste per uso di chi havesse talento dalla natura di ricercare gli estremi di esse voci, essendo necessario in detta parte di basso nelle semiminime e crome col punto, che discendono per grado, trillarne or l'una et or l'altra, per darne maggior grazia, forza e spirito, e per darsi bravura e ardire, che più si ricerca in detta parte, e nella quale vi si richiede assai meno l'affetto, che nella parte del tenore. In quanto alla misura o larghezza da osservarsi in dette arie, secondo che è maggiore la gravità da usarsi conforme à gli affetti delle parole, e altri movimenti della voce, più nell'una che nell'altra parte, io me ne rimetto al giudizio del cantante et insieme al mio stampato discorso del 1601.
Hò segnato sopra il Basso da sonarsi, e terze e seste maggiori e minori indifferentemente, tanto per B quadro quanto per B molle, et ogni altra cosa più necessaria, per rendermi più facile à li manco perìti, che havessero gusto di esercitarsi in esse. Ricevetele, cortesi lettori, con quello affetto, che io ve le porgo, e vivete felici: ecc.
Alcuni avvertimenti.
Tre cose principalmente si convengon sapere da chi professa di ben cantare con affetto, solo.
Ciò sono lo affetto, la varietà di quello, e la sprezzatura: lo affetto in chi canta altro non è che la forza di diverse note e di vari accenti co'l temperamento del piano e del forte; una espressione delle parole e del concetto, che si prendono à cantare, atta à muovere affetto in chi ascolta. La varietà nell'affetto è quel trapasso che si fa da uno affetto in un'altro co'medesimi mezzi, secondo che le parole e'1 concetto guidano il cantante successivamente: e questa è da osservarsi minutamente, acciocché con la medesima veste (per dir così) uno non togliesse à rappresentare lo sposo e'1 vedovo.
La sprezzatura è quella leggiadria la quale si dà al canto co'1 trascorso di più crome e semicrome sopra diverse corde, co'1 quale, fatto à tempo, togliendosi al canto una certa terminata angustia e secchezza, si rende piacevole, licenzioso e arioso, sì come nel parlar comune la eloquenza, e la fecondia rende agevoli, e dolci le cose di cui si favella. Nella quale eloquenza alle figure e à i colori rettorici assimiglierei i passaggi, i trilli e gli altri simili ornamenti, che sparsamente in ogni affetto si possono tal'ora introdurre. Conosciutesi queste cose, crederò con l'osservazione di questi miei componimenti, che chi havrà disposizione al cantare, potrà per avventura sortir quel fine, che si desidera nel canto specialmente, che è il dilettare.
Fonti consultate:
Giulio Caccini - "Le nuove musiche" (1601, 1614)
"Le origini del melodramma" - Testimonianze dei contemporanei raccolte da Angelo Solerti - Torino, Fratelli Bocca, 1903
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