sabato 18 febbraio 2017

Che cos'è il Belcanto? - di Giacomo Lauri - Volpi



Che cos'è il Belcanto?
Risponde uno dei più grandi e acclamati Tenori di tutti i tempi: Giacomo Lauri-Volpi

 “Belcanto” - voce compilata dal tenore Giacomo Lauri-Volpi, inserita nella “Enciclopedia della musica”, ed. Ricordi, Milano 1963

Il Tenore Giacomo Lauri - Volpi nel ruolo del Duca di Mantova

BELCANTO. Per B. si intende quel genere di canto individuale che nella storia della voce umana dapprima si affidò all’espressione melodica, poi si complicò nel gusto decorativo e ornamentale, in gara con il virtuosismo degli strumenti orchestrali. Questo genere di canto poté affermarsi quando l’opera, o dramma cantato, diede rilievo a un elemento psicologico che caratterizzò il passaggio dall’età media all’evo moderno: la scoperta della individualità del personaggio nell’arte e nella vita.
Il B. è la più tipica espressione dell’individualismo canoro, che generò il divismo sulla scena lirica. Le voci umane nel medioevo avevano collaborato con gli strumenti in senso collettivo, in aggruppamenti uniformi in cui il singolo scompariva in quanto tale. Ne risultava una sorgente sonora molteplice e indifferenziata, in cui si diluivano le componenti. Nel rinascimento balza in primo piano la personalità univoca, super-differenziata del solista, al quale fanno corona coro e orchestra. Come il rinascimento è rivelazione tutta italiana di valori umanistici, anche il B. (che del resto è fiorita espressione) è arte tutta italiana. Cosa strana: in Italia la scoperta dell’individuo, la esaltazione o culto della personalità, si verificò alla fine del ‘500, proprio quando l’Italia era scomparsa come individualità nazionale e politica, cadendo sotto il servaggio dello straniero, che la ridusse un mosaico di piccoli Stati. Il fenomeno di quella scoperta è evidente in ogni aspetto della vita musicale di allora e andrà sempre più radicandosi col passaggio dallo stile polifonico allo stile omofono, dal madrigale (a più voci) all’aria a una sola voce. Quel fenomeno è, in fondo, una manifestazione, una reazione del tipico individualismo italiano.

Il B., nella sua triplice accezione verbale, è alla base della origine e della evoluzione storica della voce e del melodramma, al quale conferisce lo slancio vitale e la vera ragione d’essere. Infatti gli ellenisti fiorentini nel crearlo alla fine del ‘500, non ebbero altro scopo che il canto in sé e non già – come fu detto – la ricostruzione del dramma greco: il canto fine a se stesso, in quanto forza viva, che si regge da solo per interno impulso del sentimento e della passione soggettiva. La voce umana diventa strumento del pensiero e non ha bisogno di elementi formali contrappuntistici. Si regge, per così dire, sullo sforzo di affermare la propria personalità melodica. Donde l’origine della parola cantata, caratteristica del dramma in musica. Vale a dire, la musica si mette a servizio della parola e del canto individuale. Creatore della scuola del B. – bello perché emotivo ed espressivo, da distinguersi, come abbiamo precisato, da quello decorativo – fu il romano Giulio Caccini, che da Roma si trasferì a Firenze, ove fondò la scuola di canto in cui fiorirono le voci delle figlie Francesca e Settimia: scuola basata sulla passione profonda e la parola adeguata e sulla chiarezza della dizione in armonia con la tradizionale, romana “concinnitas”. Il “recitar cantando”, proprio di questo stile rappresentativo, portò alla libertà melodica e a un rinnovamento della tecnica del suono cantato.

Nel suo insegnamento, il Caccini fu un rinnovatore della ortofonia vocale e uno dei primissimi compositori di melodrammi; egli lasciò scritte interessanti norme del B. Avvertiva i discepoli di “attaccare il suono appoggiandolo sulla nota immediatamente inferiore”, oppure di “evitare questa appoggiatura e di attaccare invece la nota direttamente ma dolcemente”, come nota “tenuta” che va dal piano al forte e decresce dal forte al piano iniziale (la classica “forchetta” in uso in ogni scuola che si rispetti), di cui si è perduta ogni traccia nel canto lirico attuale, divenuto monotono e meccanico, senza sfumature di fraseggio, privo insomma della tavolozza di colori che vanno dal sussurro delle note a “fior di labbra”, ma “appoggiate”, alla vigorosa espansione dell’esaltazione lirica, che fece degli artisti dell’800 i dominatori delle scene e delle corti di tutta Europa.

Il Caccini, come “fioritura” ammetteva solo il trillo e per agevolarne l’esecuzione valorizzò il gruppetto, che è una delle forme più in uso nel canto fiorito o B. Nelle opere del Peri, del Caccini, del Monteverdi e successive (Dafne, Euridice, Arianna…) la parola declamata (recitativo) e la parola cantata si alternavano con accompagnamento del solo clavicembalo, la prima, e della rudimentale orchestra, la seconda. In quei tempi il canto non veniva sopraffatto da enormi complessi orchestrali. Senonché la voce solista incominciò, a poco a poco, ad abusare della sua sovranità, e nel ‘700, per il predominio dei soprani-maschi, il B. diventò una esibizione di licenze, gorgheggi e trilli, in cui la parola si diluiva in vocalizzi arditi e sorprendenti.

Lauri Volpi in "Rigoletto" nel 1929 a San Francisco
 Fu C. W. Gluck (1714-87) a restituire al melodramma dignità e semplicità d’espressione canora e verbale, con l’Orfeo e con l’Alceste. “Mi sono ben guardato – egli dice – d’interrompere il cantore nel fuoco del dialogo per introdurre un noioso ritornello, o di ritenerlo sovra una vocale favorevole perché possa dar prova della nobiltà della sua bella voce o fare delle variazioni su un motivo”. Il “ritorno alla natura”, propugnato dal Rousseau, aveva sortito il suo effetto. A debilitare le posizioni dei sopranisti che avevano portato le assurdità del B. al parossismo (basti ricordare il Farinello, che con le sue meraviglie vocali guarì l’ipocondria di Filippo V e tenne in vita Ferdinando IV di Spagna) intervennero la Benti-Bulgarelli, la Matrilli, la Priori nel ‘700, la Bertinotti e la Malibran nell’800. La quale gareggiando a Londra col sopranista Velluti, inflisse a questi una sconfitta memorabile. Con l’avvento dei “diritti dell’uomo” anche quelli vocali della donna vennero rispettati. Si videro, finalmente donne in abiti femminili cantare nei teatri le parti di donna, e con la stessa abilità di vocalizzi, variazioni, trilli e gorgheggi, che erano sembrati fino ad allora, una esclusività delle voci evirate. Ma anche la Malibran, e, dopo di lei, la Grisi e la Patti, abusarono delle loro eccezionali facoltà. La prima giunse al punto di introdurre in una data opera, brani di altre opere dello stesso autore o addirittura di altri autori. La mania di gareggiare con il violino, il flauto, l’oboe, è tuttora in voga nelle opere in cui il soprano leggero può sbizzarrirsi a piacimento nella cadenza finale di un’aria. (La scena della pazzia nella Lucia di Donizetti). Famosa la gara a chi meglio improvvisasse, tra la Malibran con la voce e Thalberg con il pianoforte. Gioacchino Rossini riuscì in parte a rimediare agli eccessi e agli arbitrii del B.

Con Wagner e Verdi la parola e la poesia riacquistarono la loro importanza. Ma, fin da Bellini, testo e musica si compenetrarono in guisa da non permettere che l’uno prevalesse sull’altra. Nella Norma, poniamo, il canto e la parola si equilibrano creando una melodia quasi perfetta di pensiero e di suono. In Bellini il vero B., immune da abbellimenti fuori posto, si snoda in frasi miracolose e trasporta l’anima dell’ascoltatore sensibile alla sublime sfera dell’assoluto. Basterebbe la corretta esecuzione di “Casta diva” (l’aria che contiene le più lunghe frasi melodiche che siano mai state scritte) per dare un’idea di ciò che s’intende per autentico e inconfondibile B. italiano: canto che dovrebbe essere di tutti i tempi, per la sua etica ed estetica nobiltà. Ma per eseguirlo occorre lo strumento vocale idoneo ad esprimere tutti i sentimenti dell’anima e le emozioni che, già provate dal compositore di genio, si trasfondono nello spirito dell’interprete avvezzo a scavare in profondità. Allora si comprende che sotto questo aspetto il B. è manifestazione del divino e la melodia non è il capriccio di note arbitrarie, ma il frutto di ispirazione, di cui lo stesso compositore si sorprende, dopo averla seguita e fissata in note.

Riassumendo, possiamo considerare il B. sotto i tre aspetti: classico o melodico (periodo iniziale, nel ‘600); virtuosistico per abbellimenti, capricci, ornamenti, variazioni, improvvisazioni (nel ‘700, periodo rococò); romantico, in cui si alternano la linea melodica e il superstite virtuosismo delle prime donne e dei primi tenori nell’800. Il B. vero è classico e romantico a un tempo, includendo ragione e sentimento, misura e calore, linea melodica e slancio poetico.


LETT. -
M. Kuhn, “Die Verzierungskunst in der Gesangs-Musik des 16.-17. Jahrhunderts”, 1902;
V. Ricci, “Il B.”, Milano 1923;
H. Klein, “The B.”, Londra 1923;
A. Della Corte, “Canto e B.”, Torino 1934;
L. Siotto Pintor, “Segreti del B.”, Milano 1938;
A. Machabey, “Le B.”, Parigi 1948;
J. Laurens, “B. et émission italienne”, Parigi 1950;
Ph. A. Duey, “B. in its golden age”, New York 1951;
R. Maragliano Mori, “I maestri del B.”, Roma, 1953;
Rossi della Riva, “Aclaraciones sobre la escuela italiana del B.”, Buenos Aires 1955;
U. Valdarnini, “B.”, Parigi 1956;

G. Lauri-Volpi, “I misteri della voce umana”, Milano 1957; “Gli otto punti essenziali del sistema del B.”, in “Santa Cecilia”, Roma aprile 1960 p. 92-102; O. Merlin, Le B., Parigi 1961

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