venerdì 12 ottobre 2018

Belcanto Italiano ® - L'autentico Bel canto italiano si basa sulla tecnica, non sulla natura (Parte 2)

Luciano Pavarotti e Mirella Freni nei panni di Fritz Kobus e Suzel ne "L'amico Fritz" di Mascagni

1 - NON BASTA LA NATURA (l'ha ammesso con grande coscienza Pavarotti) :

Pavarotti: "Mi diceva la figlia di Pinza che suo padre quando ha cominciato a cantare aveva pochissime note, ne aveva tre o quattro belle nel centro e su queste tre o quattro note il suo maestro per degli anni, per due o tre anni, ha costruito quella che è una delle più belle voci da basso di tutti i tempi"

- da tutte le cose che abbiamo detto viene fuori, credo, una conclusione: che praticamente c'è veramente molto poco da parte della natura e molto di più da parte dello studio!

Pavarotti: "Se fosse vero il contrario ci sarebbero centomila cantanti, perché almeno sono centomila le voci bellissime esistenti nel mondo..."


2 - NON BASTA LA NATURA (lo ripeteva la Caballé, che studiò canto per 12 anni) :

"Sono nata con una voce. Ma questo non è sufficiente a fare di me una cantante, figuriamoci una musicista", così ha dichiarato Montserrat Caballé (...) "...se non avessi avuto una buona tecnica sarei stata fuori gioco nell'arco di un decennio. Credo che sia essenziale conoscere tutto ciò che v'è da sapere sull'emissione e la proiezione del suono. E l'unica via è quella d'acquisire una sicura e solida tecnica di respirazione."
"Nell'arco di un anno, [Napoleone Annovazzi] mi aveva insegnato come non forzare mai la voce bensì produrre un flusso costante di suono apparentemente naturale".

(in: Helena Matheopoulos - "DIVA, Great Sopranos and Mezzos discuss their Art" - Northeastern University Press, 1991)

3 - NON BASTA LA NATURA (lo affermava anche Pertile)

(...) nessuna voce è impostata naturalmente, e che tutti coloro che sono riusciti veramente squisiti cantanti hanno studiato anni e anni. Vorrei aggiungere che non si è mai studiato abbastanza, e che sempre vi è qualcosa da imparare. Di coloro, che prima di studiare avevano voce, e cantavano romanze su romanze, e poi dopo due o tre anni di studio sono rimasti senza voce, molti dicono: «quando cantavano naturalmente, cantavano bene; poi i maestri e lo studio li hanno rovinati». Ciò, a mio avviso, non è esatto. Essi cantavano con la gioventù e con la forza (...) »

Intervistato da Arnaldo Fraccaroli (giornalista del "Corriere della Sera", amico di Giacomo Puccini e autore di quattro volumi dedicati al compositore lucchese), il celebre tenore Aureliano Pertile, a quell'epoca ormai passato all'insegnamento, ammoniva i giovani studenti di canto così:

«Si dice che il canto è natura. Non basta. Adesso i giovani sono impazienti: si studia poco, e non sempre bene. Si vuol arrivare troppo presto, e così non si arriva affatto. A molti manca l'arte di accentuare la parola, la frase: manca cioè il colore. Molti gridano credendo di cantare forte. Bisogna convincere i giovani che occorre studiare con pazienza, con costanza.»

(da: Domenico Silvestrini - "Aureliano Pertile e il suo metodo di canto" - Bologna, Aldina Editrice, 1932)



4 - NON BASTA LA NATURA (ne è un esempio Gigli voce baciata da Dio che non s'aggrappò alla natura, chi dice che Gigli e Caruso non avrebbero potuto neanche volendo non avendo collo cantare di gola dice una falsità, infatti Gigli qui testimonia l'esatto contrario, il collo corto o non aver collo potrà essere un vantaggio ma non esclude fisiologicamente che si possa ingolare, Gigli di gola non cantò mai nel tronco base della carriera durata 41 anni, problemi e difetti li ebbe durante la giovinezza quando studiava canto nonostante avesse una voce naturalmente predisposta al canto e poco collo) :

<<L'impostazione delle mie esercitazioni vocali, a quell'epoca, era naturalmente ormai cosa fatta, ma il mio modo di cantare aveva ancora un certo numero di difetti, e Rosati aveva deciso di liberarmene. Per esempio mi ero abituato a cantare con quanto fiato avevo, con tutta la forza dei miei polmoni; ed il risultato era che le note alte mi mettevano in qualche difficoltà. Rosati mi aiutò a coltivare certe modulazioni di tono, mi insegnò un maggior senso delle proporzioni. Mi fece abbandonare, per qualche tempo, l'opera, inducendomi a concentrarmi su motivi delicati del diciassettesimo e del diciottesimo secolo; ricordo, in modo particolare, le "Viole" di Mozart. Dopo sei mesi di duro lavoro, tanto nella sua classe a Santa Cecilia, quanto in lezioni private a casa sua, fui finalmente in grado di cantare l'estremamente difficile "Ingemisco" della Messa da Requiem di Verdi, con piena soddisfazione del maestro. (...)>> 


Dopo aver vinto un concorso di canto a Parma [dopo quasi dieci anni di canto nei Pueri Cantores e sei anni di studio con vari maestri], Gigli fece il suo debutto al Teatro Sociale di Rovigo la sera del 14 ottobre 1914 nella Gioconda di Amilcare Ponchielli.
Alla prova generale, non sentendosi sicuro di cantare il si bemolle aggiunto per usanza tradizionale dei tenori, il debuttante Gigli preferì optare di cantare la nota finale della celebre aria "Cielo e mar" eseguendo solo un sol, come scritto dal compositore (anche su suggerimento del direttore d'orchestra Sturani). Ma, avendo percepito la freddezza del pubblico e sentito alcune critiche dei musicisti dell'orchestra e del coro, dalla terza sera di replica dell'opera egli decise di lanciarsi con coraggio ad eseguire il si bemolle "di tradizione", riuscendovi senza capire però esattamente come.
Così continua il racconto di Gigli:

<<Nelle altre undici rappresentazioni date a Rovigo mi aggrappai, alquanto precariamente, al pinnacolo che avevo conquistato con il si bemolle di "Cielo e mar". Alla fine di ottobre, dieci giorni di tregua prima di trasferirmi a Ferrara. Mi precipitai a Roma.
"Non posso andare avanti così" dissi al maestro Rosati. "Sono sempre terrorizzato da quel si bemolle. Qualche volta ci riesco, e qualche volta sento che ne sono capace. Il pubblico di Rovigo è stato dalla mia parte dopo la terza serata, ma adesso bisogna ricominciare a Ferrara."
"A Ferrara andrà benissimo" mi rassicurò. "Intensificheremo la preparazione."
E così si fece.

"Bene" disse il maestro una settimana dopo. "Come si sente adesso con quel si bemolle?"
"Mi pare di avere davvero fiducia, finalmente, grazie a lei."
Egli sorrise.
"Certo. D'ora in avanti, son convinto che può avere fiducia, non soltanto per quel si bemolle ma anche per il si naturale e tutto il resto."
"Che intende dire?"
"Una settimana fa, quando ha incominciato ad esercitarsi, ho fatto accordare il piano su un tono più alto, un intero tono" mi spiegò ammiccando. "Così, ogni volta che lei credeva di cantare il si bemolle, in realtà era un bellissimo do. Tutte le mie congratulazioni!">>


[da: Beniamino Gigli - "MEMORIE" - Arnoldo Mondadori Editore, 1957]



5 - NON BASTA LA NATURA (lo capì Corelli, che da Lauri-Volpi e Maria Ros apprese la giusta tecnica) :

<<Quando cantavo agli inizi, non pensavo a dove collocare una nota; aprivo la bocca e cantavo. Quello non è cantare con la tecnica, è un canto naturale. Cantare con la tecnica è quando si pensa a dove mettere la voce. Tutte le note devono andare verso lo stesso punto...
[Cantò "I, E, A, O, U", poi ripeté questa sequenza in modo errato con ciascuna delle cinque vocali eseguita con differenti aperture e chiusure, e con diversi tipi di posizionamento, alcuni chiari ed altri scuri.] Tutte le vocali devono essere dirette verso lo stesso punto.>>

(da una intervista al tenore Franco Corelli condotta dal basso Jerome Hines, riportata in: J.Hines - "Great Singers on Great Singing", Doubleday, 1982)



6 - NON BASTA LA NATURA (lo aveva già chiarito il grandissimo ed inarrivabile Lauri-Volpi, "maestro" di Corelli) - qui il tenore di Lanuvio testimonia quanto sia importante non basarsi sulla mera natura, facendo l'errore di abusare di suoni aperti e di spalancare le note di passaggio, e di avere idee generali chiare sul canto lirico :

« La Stagione al Metropolitan terminò con la conferma per le venture e mi ottenne la scrittura per quella estiva a Ravinia Park, presso Chicago. M'impegnai a cantare in questo Teatro l' "Elisir d'amore", "Fra Diavolo" e "Aida", opere che avrei studiate durante i tre mesi precedenti l'inizio di stagione.
Era necessario ch'io ampliassi il repertorio ad ogni costo e mi rendessi utile con la versatilità. I criteri di Gatti-Casazza mi eran noti. Sottoposi la gola a una fatica sovrumana e la mente a una tortura spietata. Al trentesimo giorno non avevo più né voce, né memoria. La voce non resisteva alla tessitura grave del ruolo di Radames. Maria mi fece comprendere amabilmente ch'io abusavo del dono naturale. "La tua stanchezza - mi diceva - non deriva dalla fatica del cantare, ma dall'errata emissione dei suoni. L'esercizio metodico, sostenuto dalla disciplina di una tecnica esatta, non potrebbe provocare l'afonia che ti affligge. La voce naturale anche la più dotata, non sarebbe sufficiente a superare neanche le difficoltà dell'atto del Nilo".
Dovetti convenire che la voce non è privilegio, che si possa abbandonare a se stesso. Mi affidai all'insegnamento della dolce consorte, con l'umiltà e il pentimento di chi troppo presto si credette sicuro delle proprie forze e rischiò di perderle per sempre. Soprattutto io avevo bisogno di idee chiare. Studiando con lei mi accorsi che le note basse del soprano corrispondono, per colore ed emissione, alle medie del tenore: quelle che nella mia voce presentavano lacune proccupanti. Provando, riprovando ed imitando, con leggerezza, parsimonia ed equilibrio, i suoni iniziarono una lenta trasformazione. 


Maria divenne la mia collaboratrice assidua, la mia guida, la mia consigliera. Senza di lei le disavventure future nel "Re di Lahore", nel "Guglielmo Tell" e nel "Trovatore", di cui farò menzione a suo tempo, si sarebbero mutate in catastrofe definitiva e della mia voce non rimarrebbe, ora, neppure il ricordo. Quando ripenso alla fine immatura di gloriose voci, che la natura e Dio offrirono in dono a creature privilegiate, comprendo in tutto il significato la fortuna di possedere l'anima della mia Donna, che salvò l'inesperta, mutevole, variabile, stravagante laringe, affidatami dal capriccio della sorte. L'insegnamento di Maria impedì ch'io perdessi la fiducia nei miei mezzi e lasciassi a metà la carriera (...)
A Ravinia Park, oltre il consueto repertorio, cantai le opere da poco studiate. Nemorino, Fra Diavolo e Radames dimostrarono i risultati tangibili della disciplina vocale, che mi ero imposta. Mi stupivo come avessi potuto cantare, per quattro anni, senza pensare al suono prima di emetterlo, senza distribuire i fiati, senza coltivare le risonanze, senza legare le frasi, senza uniformarmi al complesso delle armoniosità orchestrali. Naturalmente l'attenzione molteplice e simultanea mi costava gran fatica. Non potevo in così breve tempo rimediare a tutte le deficienze, naturali o acquisite per falsi supposti, che avevano messo in serio pericolo la salute della mia voce.

Nell'inverno seguente tornai al Metropolitan e vi cantai "Andrea Chénier", "Manon" di Massenet in francese, "Carmen" in francese e "Re di Lahore" in francese, opere alternate con le altre del repertorio abituale. Io non conoscevo l'importanza e l'asprezza del "Re di Lahore". Quest'opera esige nel tenore una voce drammatica, ampia, oscura e centrale, come l' "Otello". Perché la direzione artistica del Metropolitan l'affidò a un tenore di voce estesissima, brillante, limpida non ho mai capito. Né mi so persuadere della legittimità dei motivi che l'indussero a impiegarmi, a brevi intervalli di tempo, nella stessa settimana, in un repertorio che comprendeva "Barbiere" e "Rigoletto", "Re di Lahore" e "Aida", "Traviata" e "Cavalleria", senza riguardo alla diversità dei generi e alla fragilità della voce. Con che cuore potevano esigere la critica dei giornali e la malevolenza dell'ambiente una perfetta intonazione, soavità di "legato", nobiltà di stile da un malcapitato artista, al quale senza scrupolo s'imponeva di smaniare follemente nell' "Io son disonorato" di Aida e di sospirare ventiquattro ore dopo: "Bella figlia dell'amore"? Per resistere alla fatica ed evitare il rischio dovetti giocare di astuzia e inventare trucchi, stillando note dal cervello più che dalla gola esausta. Divenni sospettoso, irrequieto, violento. Sentivo che presto avrei perduto la voce per sempre e dovevo fare economie strettissime per ritirarmi dal Teatro, almeno coi vantaggi di una discreta fortuna. La "claque", non pagata, mi zittiva ferocemente. La stampa criticava aspramente la mia povera voce martoriata. Io soffrivo dell'offesa che si recava alla giustizia. Pensavo che si sarebbe dovuto invece censurare un'Istituzione, la quale subordinava l'attività degli artisti alle esigenze del programma settimanale, e non teneva conto di quelle derivanti dai diritti naturali e tecnici dell'organo più delicato e cagionevole: la voce del tenore. Vissi allora in clausura. Divenni selvatico a forza. (...) Maria mi custodì con le sue cure di madre, di sorella e di sposa e non permise che il male prevalesse e i nemici potessero più della sua bontà serena e fidente.
Compii la stagione con onore. Seppi temporeggiare e vincere, poiché la mia collaborazione risultò di grande utilità alla Direzione del Metropolitan, per lo sviluppo e l'equilibrio del complesso programma. Mi rassegnai all'ineluttabile forza, che costituiva l'essenza di una Istituzione mirante al complesso artistico, non all'incolumità vocale dei singoli. (...)

Amante dell'indagine, mi son fatto lecito di esaminare le caratteristiche di cantori rappresentativi coll'unico scopo di prevenire i giovani e metterli in guardia dagli smarrimenti, di cui sono stato vittima io stesso per oltre un decennio della mia carriera. Esordendo credetti alla continuità di un dono naturale perenne; alle prime schermaglie colle difficoltà credetti nel verbo rivelato di cantanti illustri, di cui non compresi i reali, intimi pregi e imitai i difetti esteriori: quindi l'equivoco di considerare ideali le inflessioni gutturali di Tizio, le nasalità di Caio, le emissioni mistificate di Sempronio. Incertezze, disuguaglianze, false intonazioni, dubbiosi attacchi, suoni ibridi furono il risultato del tremendo malinteso, che portò a varie riprese la mia voce sul limitare della fine. Fra le molte vie, che mi vidi innanzi aperte, frequentai tutte fuorchè la dritta, e già avevo perduto ogni speranza quando apparve la mia Diletta, "maestra e donna", che pazientemente superò le prevenzioni dell'orgoglio fondato su di una occasionale, improvvisa celebrità. Anch'io scambiai il falsetto per la mezzavoce ed il misto, abusai di suoni aperti, spalancai note di passaggio, camuffai le deficienze colle sonorità nasali, sostenni con spasimi e contrazioni gutturali i suoni vacillanti e vidi ogni giorno di più diminuire la resistenza della respirazione e aumentare lo sfaldamento dell'organismo vocale come per lo sviluppo di un morbo, che non perdona. La salvezza mi venne dalla devota Compagna, che mi guidò con intelletto d'amore e non si fece abbagliare dalla luce equivoca di una gloria effimera. Nei più recenti anni acquistai la certezza di idee chiare, e compresi i miei difetti e gli altrui che oggi addito, perchè se ne guardino, ai devoti del canto, tratti per inesperienza all'imitazione d'esteriorità. (...) L'esperienza di me medesimo, che pubblicamente confesso, valga ad insegnare che la professione del canto è la più ardua ed espone alle più torturanti delusioni i faciloni e gli ingenui. Fra i direttori d'orchestra, versati nello studio critico della voce, il maestro Gino Marinuzzi, sotto la cui bacchetta cantai varie stagioni, mi parve il più attento e scrupoloso. Egli accompagna l'artista, incline al panico ed esposto alle insidie della partitura e della fama, coll'esperienza psicologica e l'acume tecnico di chi allo strumento della voce umana ha dedicato le attenzioni che i direttori sogliono concedere solo agli strumenti della loro orchestra. »

(da: G. Lauri Volpi - "L'equivoco", 1938)



7 - E infine la "voce della coscienza" di uno degli ultimi esempi di tenore "di grazia" belcantista del Novecento, Ugo Benelli che nel suo libro scriveva e testimoniava che NON BASTA LA NATURA :

<<Le mie difficoltà di intonazione, nella prima parte della carriera, erano dovute ad una voce facilissima che praticamente mancava della prima ottava. Ricordo l' "Anch'io vorrei" dell'Arlesiana, e la fatica di realizzare il mi bemolle prima della terzina. Era lì che s'annidava quel certo smarrimento nell'intonazione delle note successive.
Continuando a cantare con una voce naturale e con una tecnica non consolidata, ti trovi che, a un certo punto, la voce finisce e sei costretto a smettere. Ne ho visti tanti, di giovani colleghi che sul momento mi hanno superato, per poi sparire.
Il mio orgoglio maggiore è essere ancora sul palcoscenico, dopo mezzo secolo di questo strano mestiere, di questo gioco serio e difficile che è il canto.>>
<<Il "Falstaff" di Zeffirelli (1960) mi aprì la carriera e mi diede anche sicurezza economica. (...)
Da questo "Falstaff" raccolsi critiche stupende... Ma non furono tutte rose e fiori, anzi. La mia era una voce naturale, avevo studiato (poco tempo) con Magenta, ed alla Scala più che altro si trattava di un perfezionamento interpretativo, di uno studio di spartiti. Perché davano per scontato che, tecnicamente, tu fossi a posto.
Interpretando il ruolo di Fenton mi accorgevo di essere sempre leggermente calante. Al direttore d'orchestra piaceva talmente la qualità della voce, che sopportava questo mio problema. Ma al punto dove il personaggio canta "Al suo fonte rivola..." rischiavo sempre di perdere qualche comma. Rivoli mi voleva bene, in seguito lavorai con lui anche all'Opera di Parigi in occasione di un "Barbiere di Siviglia". Lo ricordo come un vero amico, come Confalonieri e Mannino. Alla fine delle recite del "Falstaff" mi prese da parte e mi disse, con affetto: "Ugo stai attento, sei leggermente calante. Io ci passo sopra, per le tue qualità, ma ci può essere qualche direttore d'orchestra al quale questo fatto può dare fastidio... Devi studiare ancora".
Tutte le soddisfazioni che già potevo avere al tempo, venivano offuscate quando mi accorgevo di calare, ascoltandomi nelle registrazioni. Il dramma è che credevo di cantare intonato. E in sala prove, col pianoforte, non sgarravo mai. Ma in teatro, con l'orchestra, le cose cambiavano. Probabilmente era questione di mancanza di armonici... Dovevo mettere più timbro nella voce. E mi arrovellavo.
Fu lo studiare attentamente la vocalità di Alfredo Kraus, e soprattutto il cantare accanto all'amico, al grandissimo "fratello" Sesto Bruscantini, che mi aiutò a risolvere il problema. (...) 
[n.b. Benelli incontrò per la prima volta Bruscantini nel '62 e prese lezioni da lui, in particolare sui recitativi, qualche anno più tardi, nel '65] 
Di lì a poco venne la celebrità, l'epoca delle opere e delle operette in televisione, della gente che mi riconosceva per strada. Ma i problemi vocali non erano finiti. (...) Il 1962 fu l'anno di una crisi importante, determinante per il mio futuro. Venne un momento in cui non credei più in me stesso: quando un artista canta molto di natura e poco di tecnica, una caduta - psicologica o vocale - può essere fatale. Di solito non ci si rialza più e si chiude una carriera. io ce l'ho fatta anche grazie ad Angela.
La miccia fu l'operetta "Eva" di Lehar, una produzione che venne trasmessa in televisione. (...)
Con Angela che mi faceva gli accordi al pianoforte, e col registratore acceso, iniziai a studiare. Mia moglie fu di grande aiuto, anche perché dotata di un forte senso critico. Ho avuto la fortuna di avere accanto una grande donna... Registravamo un vocalizzo e lo ascoltavamo insieme, commentando, riprovando, e ascoltando ancora.
Terminato questo periodo di lavoro autonomo, decisi di fissare quanto avevo raggiunto bussando alla porta della persona - forse l'unica - verso la quale nutrivo una cieca fiducia. E rintracciai il Maestro Campogalliani. Bastarono poche lezioni: non più alla Scala ma al Conservatorio di Milano. Terminava il lavoro con gli allievi a mezzogiorno e poi mi ascoltava. Fu lui a dirmi "Non venire più, non ne hai più bisogno... Stai giusto attento alla vocale A, nient'altro".>>

(da: Giorgio De Martino - "Cantanti, vil razza dannata" - Una dichiarazione d'amore contraddittoria attraverso la vita e gli incontri di Ugo Benelli - Zecchini Editore, 2002) 

In conclusione, chi tra i cantanti famosi del passato non ha seguìto questa strada ha finito prima del tempo la carriera a motivo della carenza di tecnica, perché si era basato meramente sulla natura.  Un esempio è quello di Di Stefano secondo le parole di testimonianza della stessa Rina Gigli :
«secondo me la voce più bella dopo quella di mio padre l'ha avuta Di Stefano. Io ho cantato con lui la "Bohème" all'Arena di Verona e ne ho riportato un'impressione straordinaria (...) però mio padre glielo aveva predetto. Quando Pippo venne a Roma a cantare l'Iris di Mascagni, gli disse: - "Figlio mio, perché ti vuoi rovinare? Guarda che io l'Iris la prendo con le molle, perché è un'opera che spacca la gola."
Di Stefano aveva una voce meravigliosa ma gli mancava lo studio; era una voce spontanea, non consolidata da una tecnica perfetta. Alla fine, a forza di aprire i suoni, si è rovinato.» 
(da: Intervista al soprano Rina Gigli, tratta da Bruno Baudissone - "Un nido di memorie", 1983)
E chi didatticamente vi illude del contrario vi sta portando fuori strada, lasciate immediatamente maestri del genere, prima che sia troppo tardi, per la salute del vostro strumento VOCE !
Prima che si debba arrivare a correggere una grave ed errata "memoria muscolare" acquisita, con un intervento di ricostruzione vocale da parte di un valido docente di canto - meglio prevenire che curare!! - e prima di arrivare, nei casi più gravi, a dover intervenire a livello foniatrico (dopo l'insorgere di edemi, polipi e noduli) !!!


(continua)


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