Cari cantanti, studenti e
insegnanti di canto, musicisti e appassionati, siamo lieti di potervi qui
presentare la seconda parte del saggio “Dell’Opera in Musica” del 1833 del
celebre Tacchinardi, tenore dell’Ottocento, nonché insegnante di canto e regista
“in nuce”!
Ecco per tutti voi questo
illuminante testo, che dovrebbe far riflettere sia gli studenti e docenti di
musica e di canto in particolare, che gli operatori dello spettacolo, così come
il semplice pubblico.
Buona lettura!
Dell’Opera in Musica sul Teatro Italiano e de’ suoi difetti
Opuscolo di Nicola TACCHINARDI, artista toscano
Firenze, presso Giovanni Berni 1833
ARTICOLO IV – Della figura e della maniera di vestirsi in
teatro
La figura, tanto nell’uomo che
nella donna, dovrebbe esser per il teatro di giusta statura, cioè né troppo
alta né troppo bassa, né grassa né magra. Ma la natura non accompagna sempre i
doni con i suoi ausiliarii, ed è perciò che raramente troviamo quel bello
insieme che vi vorrebbe.
L’opera seria soprattutto
richiede che i suoi attori abbiano una figura vantaggiosa: e si potrebbe
ottenere col non ammettervi chi non possedesse questo dono. Ma cosa
succederebbe? Vi sarebbero allora (per così dire) più teatri che cantanti. Una
vantaggiosa figura avrà piccola e delicata voce: ed eccola fuori di caso per
l’opera seria. Una figura piccola avrà una voce robusta e forte, ed eccola
fuori di genere per l’opera buffa. Convenne a tale oggetto porre la necessità
alla tortura di scegliere adattata all’opera in musica o la figura o la voce:
fece questa pender la bilancia in favore della voce, e così fu deciso che la
voce prevalesse alla figura. Sicuramente non appagherà l’occhio dello
spettatore un piccolo Attila, un piccolo Teseo, un piccolo Orazio, una piccola
Fedra, una piccola Semiramide, né soddisfarà la vista un lungo e magro Lindoro,
un lungo Pastorello, una lunga Rosina, una lunga Clori; ma dovendo cedere alla
necessità, e dovendo comparire in pubblico in quelle parti che vi vengono
affidate con la figura che la natura vi ha dato, non v’è altro mezzo onde
rendersi meno ingrati all’occhio del pubblico, che studiando la maniera di
vestirsi, e con questa correggersi.
Per farlo, se l’attore non
conosce ragionevolmente il disegno, si dirige non al sarto, ma ad un pittore
figurista o ad uno scultore; e la donna non si fidi mai in teatro dell’occhio
d’un’altra donna, ma soltanto di quello dell’arte. Pittura e scultura sono i
consiglieri da consultare, e non partirsi da questi.
Comunemente però si fa tutto al
contrario. Ognuno si corregge, o crede correggersi, secondo la propria
immaginazione, o si consiglia con chi non sa vedere. Esempio. Un uomo ed una
donna che faccia le parti da uomo, piccoli di statura e grossi, ricorrono
subito (secondo loro) al mezzo il più sicuro per ingrandirsi, qual è quello di
porsi un cuneo di sughero sotto al calcagno, e di caricarsi la testa con
eminente elmo con piume o gran cresta, con altissimi e caricati berretti, con
smisurati diademi, turbanti e cose simili. Infatti, se con questo mezzo
misuriamo la figura dalla cima di quanto portano in testa sino in terra, la
troveremo allungata circa due terzi di braccio. Due terzi di braccio, aggiunti
ad una figura piccola divien subito grande: ed eccola corretta senza tanta
difficoltà. A mio parere però, vien tutto all’opposto, ed eccone la prova.
Osserviamo questa figura dal suo punto orizzontale, ossia dal centro del
teatro. L’occhio dello spettatore si slancia naturalmente all’occhio
dell’attore, e questo deve riscontrarlo in quel posto che vien situato nella
proporzione della figura: invece vi troverà la pianta delle piume che si
partono di sopra all’elmo, o la metà del volume che porta in testa, e
ricercando l’occhio che trova fuori del suo posto, lo vedrà sotto ad un immenso
volume a guisa d’un capitello corintio. Se questo dunque comparisce basso, come
mai potrà diventar alta la persona? Bisogna dunque convincersi che questa è una
falsa maniera di correggersi, ed il cuneo sotto i piedi v’impedirà il libero
camminare senza somministrarvi alcun vantaggio. Non vi correggerà in questa
guisa un uomo dell’arte, mentre non v’ha che la maniera di vestirsi che
allunghi quanto è possibile, e scorci la figura.
L’abito antico, tanto greco,
romano, che asiatico, è composto di una tunica e d’un manto, per l’uomo: di una
tunica fino ai piedi e d’un manto, per la donna. La tunica e manto, greci e
romani, devono essere indispensabilmente di lana, e ricchi tanto l’uno che
l’altro di pieghe.
L’attore di personale piccolo e
grosso, dovrà scegliere lana finissima e manevole, onde possa far pieghe da per
tutto.
La lunghezza della tunica, che di
rado l’uomo la porterà fino ai piedi in teatro, dovrà lasciare scoperto intiero
il ginocchio, con molte pieghe in giro, ed allacciata sotto al torace.
La manica dovrà esser corta nel
costume romano, e potrà esser lunga e larga ne’ costumi greco e asiatico. Il
braccio nudo, e parimente nuda la gamba, ed il coturno non dovrà alzare più di
tre dita sopra la noce del piede. Osservare che le spalle non slarghino dal
nudo per mezzo della manica, né che alzino per lasciar libera la lunghezza del
collo, e se questo fosse naturalmente corto, lo allungherà col mezzo di
smangiare un poco di veste sulla clavicola, e così insensibilmente fino al
principio della spalla tanto davanti che di dietro.
Il manto dovrà esser tagliato a
forma d’un perfetto mezzo tondo, e per adattarne la grandezza alla figura,
piegato per metà, dovrà il mezzo, dalla fronte misurato, toccare i piedi.
Questo dovrà parimente esser di lana finissima e posto con un gruppo di pieghe
sulla spalla sinistra, lasciandone cadere tanto che cuopra il braccio, ed il
lembo passerà con la sua punta di quattro dita il ginocchio. Le pieghe sulla
spalla dovranno esser bene spianate e fermate insieme che non alzino più d’un
dito appena. Fermato in questa guisa, ne passerà il resto per dietro alla
figura, cosicché l’altro lembo verrà imbracciato sulla diritta, e volendo
qualche volta agire col braccio libero, potrà, passandolo per davanti, gettar
quest’altro lembo ancora sulla spalla sinistra in bella maniera che tutte le
sue pieghe piombino per il dritto. La testa dovrà esser poco ingombra di
capelli. Dovendo portare elmo e corazza, dovrà il primo non alzare sulla testa
più di mezzo braccio compresa la sua cresta, e nel costume che richiede il
guarnimento di piume, devono queste essere in poco numero, ben disposte a
gronda, e raccolte in mezzo che non slarghino di più del diametro della testa.
La corazza, formata o tagliata in maniera che non scenda affatto sul fianco, ma
che faccia comparir questo un poco più alto. Nel costume greco potrà portar
bracaloni larghi col piede, ed allacciati piegosi in fondo, e sotto al
ginocchio. In quello asiatico potrà tener lo stesso sistema di vestire. In
quelli de’ bassi tempi, dovrà evitare la complicata glandiglia, non essendo
questa adattata che ad una figura alta e di collo lungo, alti stivali e
cosciali larghi a liste, o con sbuffi, ma invece porterà il rimbocco di una
camicia guarnita di trina, maglie lunghe, o bianche o di colore, e scarpe. Il
mantello che non passi il ginocchio, e che cuopra soltanto la spalla, ed il
cappello con pochissime piume a gronda, tenendo elevata quella che si parte di
sulla fronte. L’armatura intiera in figura di ferro è propria ad ingrandire,
purché sia ben fatta e tesata al nudo.
La donna, portando tunica lunga
sino ai piedi, deve essere come quella dell’uomo di finissima lana, e con
moltissime pieghe anche se, oltre d’esser piccola, fosse grassa. Abbia per
massima che le pieghe allungano, e non ingrossano, se non è grossissima la roba,
ed allacciata non sul fianco, ma sotto al petto dove il busto comincia a
stringere; comparirà anche piccola e grossa, di una giusta statura. Il manto
nella stessa guisa tagliato di quello per l’uomo, e nella stessa guisa
indossato. La testa, tanto nel costume greco che romano, deve avere i capelli
spartiti sulla fronte, e portati tutti dietro dove dovranno esser aggruppati in
treccie.
Ne’ costumi de’ bassi tempi dovrà
moderare quelle lunghe e larghe pettorine, e darle una forma che non slarghin
le spalle, e che non scendino fino al fianco. Moderati devono essere ancora gli
abbigliamenti della testa, e far che questa
divenga proporzionata al resto della figura.
Ne’ personali troppo alti, e
particolarmente se son magri, bisogna ricorrere parimente ai mezzi di comparir
di una giusta statura. Se dovranno vestire il costume greco e romano antico, si
scelga il sajo, perché questo rende le pieghe larghe e grandiose. Arrivi l’uomo
con la tunica a cuoprire la metà della rotula del ginocchio. Alzi il coturno
fin sotto la polpa della gamba. Il manto parimente di sajo, e ricco di larghe e
grandiose pieghe. Ingrandisca la testa con la capigliatura, e se porta elmo, vi
ponga sopra una cresta di lana cadente all’indietro, e criniera nel costume
asiatico. In quello de’ bassi tempi, metta sopra alla maglia, bianca o di
colore, de’ cosciali a liste o a sbuffi che arrivino fin sopra al ginocchio. Se
porta cappello con piume, le metta nere o di colore, e cadenti verso le spalle.
Il mantello che sia lungo fino alla polpa della gamba, ed imbracciato sempre
sulla sinistra. Corretta in questa guisa la figura, scorcirà e comparirà giusta
alla vista dello spettatore. Senza correggersi, se s’incontra sulla scena con
un attore piccolo, sembrerà una giraffa vicina ad un vitello. La donna procuri
di far comparire più larghe le spalle: vesta ancor lei il sajo ne’ costumi
greci e romani. Guarnisca il collo ed ingrandisca la testa in qualunque
costume. In questa, e non in altra guisa si posson correggere i difetti
personali sul teatro. Se manca dunque questa vista e questo buon criterio,
perché non ricorrere a consigliarsi con chi ne ha il possesso? Vediamo spesso
una donna piccola e grossa comparire nella nostra opera seria e semiseria a
rappresentar parti imponenti. Il vestirsi bene (secondo lei) sarà il suo primo
pensiero, e questo non sarà disgiunto da quello di correggere la sua
svantaggiosa figura; anzi ammetto la sua maggiore importanza su tale oggetto.
Osserviamo in questa come spende il suo giudizio, chi consulta e con chi si
consiglia. Con un uomo dell’arte? No. Con lo specchio? Nemmeno! Col figurino
del costume che dovrà indossare e che avrà fatta tanta premura per averlo per
tempo? Neppure. Con chi dunque? Con la moda, e con la sarta o modista. La moda
essendo il nume di tutte le femmine, al quale si abbandonano, belle, brutte,
deformi e ben fatte, diviene la consigliera e la sovrana anche nei costumi
teatrali di tutte le nazioni e di tutti i tempi.
Abbacinata la vista da questo
vano fantasma, crede la donna che dove trasparisce la moda, tutto vada bene e
tutto venga adattato e corretto. Osserviamo i figurini che manda in corso la
dominante moda, e troveremo che questi stessi disingannano l’occhio
ragionevole.
Il figurino: così si chiama,
perché infatti ci mostra una sottile, delicata e ben composta figura, alla
quale tutto il capriccio del variato vestire si adatta non potendo mai venire
ingoffata, perché se la vedessimo nuda, com’è disegnata vestita, ci
comparirebbe un mezzo spettro.
I negozianti di stampe (col mezzo
di chi si dedica a trasformarlo in caricatura) ci mostrano con quanta facilità,
alterato che sia, diventi deforme; e con questo mezzo ancora, ci mostrano cosa
divengono le figure piccole e grosse con quegli abbigliamenti di moda. Servono
a divertire ed a far ridere chi passa. Come non si riderà dunque vedendole in
teatro in carne e in ossa? E perché non in quelli de’ figurini si specchia chi
a quelli ha la figura simile o approssimativa? Perché non si accorgono che per
vestir come quelli bisogna aver come quelli composta figura? Perché la moda
pone una benda sugl’occhi per farsi largo, perché in se stessa è ridicola: e lo
proviamo nel dare un’occhiata indietro, a quella che non è più in uso. La moda
presente farà sempre un bruttissimo innesto coi costumi antichi anche indosso
ad una vantaggiosa e bella figura: cosa divien poi in un personale svantaggioso
e difettoso? Lo vediamo spesso. Ecco come s’impasticciano i costumi dalle
nostre attrici cantanti. Se la veste deve esser di lana, con molte pieghe, con
manica corta e stretta, la lana da molte non si vuole e tanto meno le pieghe,
perché alla loro vista tutto ingrossa. Si sostituisce perciò il cotone, e si
tolgono le pieghe.
La manica usa larga, e perciò non
si vuole stretta. Allacciata la tunica deve esser sotto al petto: usa
allacciarsi sul fianco, e là deve esser allacciata la tunica. Deve aver molte
pieghe il manto, ed il taglio deve esser mezzo tondo: queste gran pieghe non si
vogliono, e si tagli diversamente; non importa che non conservi più alcun
carattere e che divenga piuttosto una sciarpa, serve che si veda che dovrebbe
esser manto. L’abbigliamento della testa richiede i capelli spartiti e portati
indietro tutti, ed aggruppati con treccie. Usano i ricci, e da per tutto si
deve veder ricci. Non si veste così una figura greca o romana antica, ma
s’imbottisce un fantoccio di paglia come si vede negli ambulanti gabinetti di
queste figure con la testa e le mani di cera. Così si adulterano i più bei
costumi che tanto c’impongono in vederli nelle antiche statue, e ne’ quadri de’
nostri più grandi artefici; ma si tollerano e si permettono a queste nostre
così dette virtuose cantanti, che mai vediamo vestite come richiede il
personaggio che rappresentano.
La donna che in teatro veste da
uomo, rimpiazzando nelle parti d’amoroso i già svaniti musici, la vedremo
sempre donna in abito virile, come per ischerzo o immascherata. Mai ne prende
il carattere e le sembianze. Il camminare è sempre di femmina. Le attillature
del vestire son sempre quelle di una donna. Di donna sono parimente le
inanellate capigliature. L’elmo portato a mezza testa a guisa di scuffia onde
far vedere i grondanti ricci che scendono sulle gote, e la spartita fronte,
sono sempre femminili abbigliature. Come mai c’illuderemo vedendo rappresentare
a queste figure un conquistatore, un guerriero tanto temuto, durante tutta la
rappresentazione, un marito divenuto già padre, un competitore di regni, e di
regine? Sempre in forma di sdulcinato Adoncino, o di paggio imberbe, con due
piccoli neri mostacchi che sembrano due spellature ricoperte dal drappo
balzamico? Mai darsi cura di prender virile il passo ed il portamento grave
adattato al personaggio che rappresenta? mai ingrandirsi un poco le ciglia? mai
guarnire il mento d’un poco di barba? mai lasciar le attillature così male in
proposito, e far che non resti fuor d’illusione che la sola voce? Pochissime
fra le nostre cantanti son quelle che hanno osservato ed osservano questo
precetto senza temer d’offendere le sembianze del bel sesso, e ne sono state
lodate.
E’ un obbligo che si contrae col
pubblico, quello di aggiustar la figura e vestirla come il carattere richiede
in qualunque genere.
ARTICOLO V – Del gesto e sceneggiamento
Il gesto è quel
movimento delle membra in aiuto della parola, e per esprimerla con maggior
sentimento.
Sceneggiamento è il
passeggiar recitando, o azione dell’intera figura.
Nell’opera seria il gesto ed il moto devono esser gravi, perché per lo
più si rappresenta personaggi d’alto grado ed imponenti. Il primo pensiero
dell’attore cantante deve esser quello di circoscriversi nei gesti necessarî a
secondar la parola, e nei passi che richiede soltanto l’azione, senza
diffondersi in moti superflui. Ricordar si deve che nel canto abbiamo una
quantità di repliche di versi e di parole, e indicatevi una volta la
corrispondente azione, non fa bisogno di tornarci ugualmente alla replica. Si
può variar qualche gesto che abbia lo stesso significato dell’antecedente, ed
anche senza moto deciso si può replicare quello che si è detto una volta. L’attitudine
e la fisonomia sono sufficienti talvolta ad accompagnar quello che si dice.
Il passeggiar per la scena, farlo quando si rende utile, e non quando
aggrada. Tutto quello che vien fatto fuori di tempo e fuori di luogo, nuoce
all’illusione e confonde l’interesse della rappresentazione.
Deve l’attore cantante esser
sempre presente a se stesso ed alla parte che le viene affidata, e mai divagato
dall’esteriore, anche nell’intervalli.
Nella controscena, ovvero quando un altro parla, deve con la fisonomia
rimarcare il senso della parola che ascolta, come se veramente fosse nel caso
istesso che s’infinge, ed in tal guisa preparerà in proposito ed illusiva la
sua risposta.
Deve ben marcare le sillabe de’ recitativi per darle quella forza e
quel colorito che richiedono. Moderar la voce nelle parole di calma, e prendere
energia in quelle imponenti.
L’azione delle braccia, ovvero il
gesto, deve esser sempre nobile e marcata. La figura resti sempre disegnata
bene, tanto nel parlare che nell’ascoltare, senza mai spingersi nel manierato.
Tutto deve sembrare spontaneo e dettato dalla natura: ed infatti l’uomo
coltivato, che sente la forza delle passioni, se deve spiegarle, la natura le
somministrerà de’ gesti e de’ moti più belli che studiati. Esercitar sempre il
moto degl’occhi e dell’intiera fisionomia in unione al sentimento: hanno questi
la sua loquela.
Procurare di diriger sempre la
parola a chi la deve applicare, e fuori di qualche soliloquio o parentesi, mai
dirigersi alla platea o agli spazî del teatro.
Nell’opera buffa, evitare il gesto grave ed eroico, ma procurar d’agire
e parlar familiarmente come in casa, e senza stento. La donna, nella scena
giuocosa, osservi di non cadere nel triviale e nell’indecenza: le sue burle
sembrino sempre naturali e spontanee. Il buffo comico deve agire come il
caratterista della commedia. I suoi recitativi devono esser chiari, di netta
pronunzia, e spediti, Nel suo lepido agire, deve esser sempre nobile, particolarmente
poi se rappresenta un signore. La sua faccia dovrà esser sempre bene assetta,
secondo i caratteri che sostiene, ed il giuoco di scena deve sempre renderlo
vivace anche nell’intervalli. E’ necessario che abbia un sufficiente corpo di
voce intuonata, e far sentire i suoi parlanti nei pezzi d’insieme, e
specialmente ne’ finali, dove per lo più ha il carico della parte principale.
La scuola di scherma è
necessarissima a chi in teatro rappresenta parti da uomo, e l’uomo che porta al
fianco una spada anche in commedia deve saperla maneggiare; e per i caratteri
brillanti, è necessario ancora il ballo.
La scuola di declamazione non deve esser trascurata da chi deve calcare
il palco scenico. Questa si può riguardar necessaria come l’alfabeto ai
ragazzi per imparare a leggere. Per mezzo di quella si scioglie la figura, e
tutte le membra: quella insegna a camminare, a muover le braccia, a voltar la
testa, a ben disegnarsi, a muover la voce ed esercitarla ragionatamente, ed in
fine a presentarsi con grazia e decenza in pubblica arena. Bisogna però che questa scuola trovi l’allievo bene iniziato in quella
del canto, ed in tutto ciò che è relativo a sentimento e buon senso: senza di
questo, sarebbe un prendersi la briga di far muovere un automa. Sceneggiamento
e gesto ragionati, buon senso, chiara pronunzia e sapersi ben vestire,
costituiscono in teatro il buon attore.
Avendo in quest’articolo fatto
conoscere alla gioventù disposta a calcar le scene quanto è necessario al gesto
e sceneggiamento, daremo un colpo d’occhio ad osservare come vien posto in
opera generalmente da’ nostri virtuosi cantanti.
Il detto “s’impara sulla scena a forza di pratica” ha dato un impulso
tanto forte alla massa di chi vi si è dedicato e vi si dedica, che il maggior
numero vi si getta a tentone credendolo il migliore espediente.
La voce è il novantanove (dicono molti): non v’ha dunque che un passo
per arrivare a cento? E’ vero! Ma questo scabroso passo è composto d’un alto
scalino che difficilmente si sale. A taluni d’ambo i sessi le basta una
sufficiente voce, l’avere un poco solfeggiato e l’avere imparato a memoria una
dozzina di pezzi vocali de’ più recenti in uso, per dire: non mi manca nulla
per mettermi in teatro. Il resto “S’impara sulla scena a forza di pratica”. Si
fanno sentire in mezzo alle società; avranno difetti di voce: si dice che in
teatro spariscono perché il locale è vasto. Pronunzieranno malissimo: si dice
che in luogo spazioso la parola si sente meglio spiegata e tanti altri
mancamenti, che per loro son tutte inezie.
S’invita un impresario a sentirli, con la raccomandazione di qualche
sensale al quale si promette una porzione di quello che percepirà, e che
all’orecchio le dice che la voce è buona e che potrà averli per i primi teatri
con pochissima paga a titolo di regalo.
L’impresario (che la maggior parte di questi nulla s’intendono di
canto) resta con facilità appagato anche da un solfeggio, purché la voce esca
fuori a sufficienza da sentirsi in luogo grande; gli scrittura senza curarsi
d’altro, mentre poco azzarda con la borsa, e con la lusinga di far bene il suo
interesse. Così s’ingaggiano molte di queste reclute e si pongono subito
nell’esercito a militar da capitani. Eccoli già caricati del fardello di prime
parti, e come tali assumono l’impegno di portarne il peso.
Eccoli sulla scena a rappresentare, e come? Senza saper muovere le
braccia e le gambe, senza saper come presentarvisi né come uscire; senza
sapersi vestire, senza saper metter fuori la voce, né come cantare né come
andare a tempo, per la differenza che passa da una stanza al teatro, insomma,
senza saper cosa fare né come muoversi, ma! “s’impara sulla scena a forza di
pratica”. Cosa si fa a forza di pratica? O nulla, o poco. Non si perviene a
possedere un’arte senza studio. La pratica, senza basati principî, trasporta in
un ammasso di difetti. La pratica vi farà acquistar delle giovevoli cognizioni
dopo imparata l’arte, ma non isolata. L’esperienza lo dimostra, perché non se
ne conta uno che riesca e che divenga artista in questa guisa.
Guai se uno di questi al suo comparire in pubblico piace per il solo
mezzo della voce. L’orgoglio prende il primo dominio sul suo animo e,
spalleggiato dall’ignoranza, lo precipita per farlo credere già artista. Non
soffre correzioni da alcuno credendosi già arrivato all’apice del sapere e di
poter gareggiare con chicchessia. Parla già di grandi scritture, ed infatuato
per i recenti applausi, forma mille castelli in aria. L’accoglienza del
pubblico è passeggiera, perché accorgendosi che la fabbrica è senza fondamenti,
contribuisce a farla cadere. Non vi rallegrino mai i primi applausi: le più
volte son venefici. Trovando che il suo incontro è stato un sogno, in luogo di
studiar giorno e notte, per ricavar profitto dal materiale che le aveva
affacciato un barlume di fortuna, ampolloso e ripieno di sciocca presunzione,
si getta a perturbare la quiete altrui e a divenire il detrattore di chi
veramente progredisce nell’arte.
Questi esseri (e ve ne son molti
sulle teatrali scene) provengono tutti dall’indicato principio.
Vi sono altri che, più coltivati,
se si applicassero a tutto ciò che richiede la sua professione, farebbero più
avanzamenti di quelli che fanno. Questi sono di quelli che ragionano parlando,
e che divengono stolidi cantando. Applicati al solo canto ed alle sue
rifioriture, accaniti a studiar passi astrusi, salti di voce, strepitose
cadenze, purché tutto questo riesca (e riuscendo bene ne ricaveranno effetto)
tutto il resto vien da loro riguardato come inutile accessorio.
Ripieni d’entusiasmo male
appropriato, li vedremo sulla scena ora come pazzi, ora come marionette, ora
come imbecilli, e mai come attori, e mai coma ragionatori. Alla loro azione
assegnano per lo più un moto periodico, come sarebbe quello di alzar prima il
braccio dritto, e stenderlo elevato: nell’abbassarlo por la mano sul petto, e
far la stessa cosa poi col sinistro. Alzarli dopo ambedue, ed abbassarli
appoggiando le mani sul petto, e da capo come prima.
Alle gambe, arrivati che sono in
mezzo al proscenio, viene assegnato alla dritta un passo in avanti, mentre il
piede sinistro resterà sulla punta: poi passerà avanti la gamba sinistra, e
resterà allora sulla punta il piede destro; fatto tutto questo, si torna
alternativamente da capo.
Di fianco si voltan di rado, e la
testa è sempre diretta alla platea o agli spazî del teatro.
Durante la rappresentazione, si
vede sempre la stessa cosa: e sarebbe poco durante la rappresentazione, ma
invecchiano senza cambiar mai questo modo d’agire.
Altri sanno di doversi muovere, e
si muovono come gli detta la fantasia: sbracciano quanto un telegrafo,
camminano a gran passi per il lungo e per il largo della scena senza sapere né
perché né per cosa lo fanno. Si spremono, si contorcono, fanno mille moti di
testa, d’occhi e di spalle senza alcun significato. I francesi li chiamano “des
grimaciers”.
V’ha ancora chi ha studiato la
declamazione meccanicamente, ed avrà imparato a ben disegnarsi, a ben
presentarsi, a muover con garbo le braccia ec., ma senza sentire la forza di
quello che dice, si trova spesso in un ammasso di controsensi. Quante volte
vediamo un gesto, un’attitudine, un movimento di fisonomia preparati fuori di
luogo e fuori di tempo, come preparando una sedia per chi poi dovrà venire ad
occuparla?
L’attore cantante deve prima di cominciare a studiar la sua parte,
leggere l’intiero dramma, per concepirne bene tutto il contenuto: prender poi
l’interesse del personaggio che deve rappresentare ed investirsi del suo
carattere e delle sue azioni. Allora perverrà ad agir con sentimento e con
illusione. Ogni arte sarà abbozzata, se va disunita da’ suoi ausiliarî.
Antonio Canova: busto del celebre tenore Nicola Tacchinardi |
ARTICOLO VI – Analogia, illusione e buon senso
Come vengono osservati questi
precetti sul nostro teatro d’opera in musica, lo potrei dimostrare con
un’immensa quantità di aneddoti successivi, senza quelli che giornalmente
succedono, e succederanno finché vi si comporta la massa de’ difetti.
Ne riporterò qualcuno senza prolungarmi, e soltanto per darne un’idea a chi leggendo questo opuscolo non avesse mai avuto il divertimento d’incontrarvisi.
Una delle nostre attrici cantanti di prim’ordine, rappresentando il figlio d’Idomeneo, comparir doveva nella sua prima sortita da una spiaggia di mare sopra un battello, e con questo approdar doveva al lido. Non piacendo a questa signora nella prima recita la preparata barca, non vi volle a nessun costo entrare, e preferì sortire a piede scavalcando le onde senza punto imbarazzarsi per la gran risata che produsse in tutto il teatro quella bizzarra sortita; ed in seguito, se non fosse stata obbligata dalla direzione a comparire nel battello, avrebbe seguitato a varcar le onde in stivaletti di seta fino all’ultima rappresentazione.
Uno de’ nostri accreditatissimi cantanti, approssimandosi una sua benefiziata, preparò per la medesima una scena ed aria con cori da rappresentarsi separatamente dall’opera che seralmente si dava. Questa venne annunziata con vestiario e scenario analogo. A tale oggetto domandò al macchinista uno scenario in proposito, avvertendolo che in esso vi doveva necessariamente esservi una montagna praticabile, per la quale l’attore doveva discendere dall’alto della medesima. Il giorno appresso, il macchinista lo invitò sul palco scenico per mostrarle tutto ciò che aveva in essere da potersene servire. Vi andò il cantante, e di nuovo le disse che l’oggetto principale era la montagna, ed una grotta al basso, dalla quale uscir dovevano i coristi. Il resto che fosse bello. Il macchinista non vi trovò di adattato che un logoro e scolorito bosco, ma disse che ne avrebbe ricoperto il più cattivo fra la montagna e la grotta. All’attore non piacque né il bosco né il ripiego, essendo la scena troppo in cattivo stato. Volle veder tutto quello che vi era d’altro, non si trovò che un atrio, una camera rustica ed una sala regia in buonissimo stato. Quella le piacque e quella volle, a condizione che vi facesse una discesa dall’alto. Il macchinista vi adattò elegante scala che servito aveva per un tempio. La scena fu egregiamente accomodata, ma il cantante poco badò che scendendo la scala diceva: <<Questo è il luogo dove il gran sacerdote d’attenderlo m’impose. L’aura che lusinghiera mormora fra le fronde, dell’onda il sussurrar, l’alta che regna tranquillitade in questo recesso tenebroso, promettono al mio cor qualche riposo>>. Questo fu detto tutto in sala, e così si servì all’analogia, all’illusione ed al buon senso.
Una donna di particolari meriti
nel canto brillante mi disse un giorno che nell’opera in musica si dovrebbe
toglier l’uso de’ recitativi, perché questi stancano i cantanti ed annoiano il
pubblico. Io le risposi che aveva ragione, perché i recitativi della nostra
opera in musica, rare volte si conosce se son detti in lingua italiana o in
arabo.
Vidi uno de’ nostri attori
cantanti, in una scena di tanto interesse, mentre porge ad un figlio il pugnale
macchiato del sangue di sua madre onde ne faccia vendetta sul suo uccisore,
farlo con tanta indifferenza e freddezza, da illudere quanto se le porgesse la
chiave della cantina per prendere una bottiglia di Borgogna.
Una cantante, rappresentando nella “Giulietta e Romeo” la parte di quest’ultimo, vestita più da donna che da uomo, non volle mai portare spada al fianco perché le rendeva impaccio; e veniva poi a competere col rivale la mano dell’amata sfidandolo a duello ed a battersi sulla scena. Quantunque avesse la previdenza di nascondere al pubblico per mezzo degli astanti il suo mostruoso combattimento, ognun s’accorgeva che le compariva il ferro in mano senza saper dove le scaturiva, giacché se lo faceva somministrar di nascosto. E disarmata seguitava il restante dell’opera. Se di questi aneddoti ne dovessi presentare alla vista del pubblico la raccolta, non basterebbe un grosso volume.
I controsensi e le sconnessioni prodotti da’ pasticci che si fanno comunemente per introdurre i (così detti) pezzi del baule, sono innumerevoli. Situati questi dove detta il capriccio, e buffi nell’opera seria, e serî nell’opera buffa, riducono le drammatiche rappresentazioni in musica a sceniche parodie.
Ma piacciono! Da taluni si risponde; ed il pubblico poco s’accorge che vi sono tutte queste incongruenze e controsensi. Cantate bene i vostri pezzi, e ne otterrete sempre un successo felice. Il pubblico spettatore alla nostra opera in musica, non esige esattezza e precisione, dove questa non ha mai esistito. Ma se conosce i controsensi e le incongruenze, esaminatelo spettatore alla commedia, ed alla tragedia, e vi accorgerete se dove l’esige lo conosce, li rimarca, e se le sfugge di vista e dall’orecchio il minimo errore. Ma la nostra opera in musica in questo stato non può esser riguardata come ragionata rappresentazione, ma come accademia di canto con gli abiti teatrali.
Il pubblico tollera, ma non approva, la cavatina scherzosa nell’opera seria; il duetto marziale ridotto con parole amorose; il rondò tragico nell’opera buffa, e tanti altri impasticciati pezzi di musica.
La purgata rappresentazione richiede che tutto sia relativo alla sua esatta condotta. Anche gli accessori ne prendono la sua parte interessante.
Quello che dirige lo spettacolo
teatrale è in obbligo d’essere come un poeta, istrutto nella storia, favola o
mitologia; diversamente è impossibile che possa adornarlo di quanto le
conviene. Questo lo abbiamo di rado sui nostri teatri d’opera in musica (per
non dir mai), e per lo più, o l’impresario dirige da per se, a seconda delle
sue cognizioni o copiando alla meglio quello che ha veduto fare ad altri, o
viene appoggiata la direzione a qualcuno degli attori che abbia più pratica
della materia, ed a cui ha toccato spesso questa scesa di testa, e giusto in
mancanza di chi lo facesse.
Quando l’opera è nuova ne prende l’assunto il poeta autore del dramma; ma questo, le più volte per mancanza di pratica lascia sfuggire le cose più essenziali, e per tal cagione non vediamo mai il nostro spettacolo camminar per il suo dritto.
L’opera seria, semiseria e buffa,
richiedono del costume adattato al soggetto: vestiario, armi ed armature,
utensili, mobili, suppellettili, insegne, scenario, e quanto può formare il più
piccolo accessorio. Invece vediamo spesso in una scena di carattere gottico, e
di simil costume il vestiario, sedie, tavolini ed altra mobilia di quattro o
sei secoli dopo. Un tempio gottico veduto nella “Semiramide”, una sala simile
nel convito di Baldassare; un cortile a cielo scoperto, che per farlo servir di
carcere calarvi in mezzo una lanterna, senza osservare che la corda che la
tiene appesa vien dal cielo; elmi degli antichi greci in testa ai soldati delle
Crociate.
Il “Barbier di Siviglia”
rappresentato coi costumi del Seicento, ed un militare con la montatura de’
nostri attuali soldati. Bracaloni alla turca ai soldati scozzesi mentre questi
hanno sempre portato la gamba nuda, e tanti altri anacronismi che vi vorrebbe
troppo tempo a descriverli.
Si dirà che questi succedono nelle opere di ripiego: non è vero! Io gli ho dovuti sopportare in teatro di prim’ordine, nelle opere nuove. E’ mera negligenza, che pone il nostro spettacolo d’opera in musica in una vergognosa ignoranza.
Il pubblico teatro deve esser
corredato di un magazzino che abbia armi, armature, suppellettili, mobili,
insegne, utensili ed altro di tutti i caratteri e di qualsivoglia costume. Una
volta sola si spende in provvederli, o in farli fare; non resta che mantenerli
in essere.
Scenario e vestiario deve esservi di tutti i caratteri e costumi. Con questo fornimento, gl’impresarii spenderanno meno anche nelle opere di ripiego, e vi si conserverà l’analogia e l’illusione. Uno ne abbiamo, e fra noi, che molta magnificenza ha aggiunto allo spettacolo in musica, ed è dedito sempre ad accrescerne lo splendore. Questo potrebbe esser quello capace di ridurlo in tal ramo alla sua perfezione.
Così forniti tengono i loro teatri gli oltremontani. In quelli vedremo più di rado sfarzo di roba nuova, ma quella che vien presentata alla pubblica vista è sempre nel costume che deve essere: cosa essenziale, per illudere e trasportar lo spettatore nel luogo dell’azione.
I loro magazzini sono immensamente pieni d’ogni genere d’abbigliamento. I costumieri, o sarti e gli attrezzisti mantengono il tutto in essere decentemente. Il pubblico non vi ammette ignoranza: esige esattezza, decenza, e non pretende scenario e vestiario nuovo ad ogni cambiar di spettacolo. Tutto perciò si osserva che sia nel suo preciso carattere e costume. Io che mi ci son trovato, sono di quelli che amerei meno sfarzo superfluo, e più analogia od illusione.
ARTICOLO VII – Delle convenienze
L’avvocato Sografi pose alla
pubblica berlina le convenienze teatrali, facendone una commedia; ed in fatti
son tali da meritarne il pubblico scherno.
Cosa sono realmente le
convenienze, cosa diventano ed a qual grado sono portate da’ nostri teatrali
virtuosi in generale? Convenienza equivale a patto, convenzione, capitolazione
ec. Si prende ancora per cerimonia, cosa onesta od equità.
Quando un contratto fra
l’impresario e l’artista è chiaro, ben concepito, e mantenuti i patti in esso
contenuti, le convenienze vengono osservate nel suo pieno vigore, e non v’è
ragione alcuna di altercare spesso senza la violazione di questi patti, che in
tal caso poco vi vuole a farli osservare.
Ma le convenienze teatrali sono tutt’altra cosa. L’ingredienti che ne formano la composizione sono: l’invidia per il primo, la presunzione, l’intrigo e l’ignoranza. Molti di questi virtuosi, ai quali si domanderà cosa vuol dir convenienza, vi risponderanno che convenienza vuol dire non esser soverchiati: e siccome tutto quello che non le viene accordato, a seconda de’ loro capricci e variate idee, divien soverchieria, da questo sorgono le convenienze, e da questa nascono tutti i disordini, i continui litigi e le discordie eterne. Il palco scenico sembrerebbe la sorgente ed il propagatore di questo contagio, e lo sarà forse, e forse quelli che ne vanno esenti (che sono in ristrettissimo numero) non avranno le sensazioni disposte a quest’attacco, siccome ancora nelle malattie pestilenziali v’ha chi resta illeso in mezzo agl’infetti. Il preservativo da questa infezione credo però che sia una dose di buon criterio, unita a qualche altra di sofferenza.
Esaminiamo le convenienze teatrali, prima dal cartellone che manifesta la qualità dello spettacolo ed il nome dei suoi attori, che da questo si arguirà il restante. Troveremo dunque nel manifesto teatrale che le convenienze non ammettono nell’opera in musica seconde parti: tutti son primi, anche quello che non avrà altro che dire “signori, è in tavola”.
In fronte a questo cartellone vi sta espresso il teatro dove si dovrà rappresentare l’opera in musica, poi il titolo della medesima, indi quello del ballo se vi sarà, ed in seguito il nome de’ cantanti in questa guisa.
Prima donna assoluta, signora
N.N. e titoli se ne ha di Accademia ec. ec. Questa dovrà esser situata in
mezzo, e se gode alta riputazione sarà contornato il suo nome da una piccola
cornice. Altre cornici son proibite. Alla dritta della medesima troveremo:
primo Soprano, o Contralto assoluto, signora N.N. e suoi titoli. Dalla parte
opposta il primo Tenore assoluto signor N.N. e titoli se ve ne sono. Sotto alla
cornice della prima donna assoluta, vi si troverà il primo Basso assoluto. Ai
laterali di questo, v’è un’altra prima donna, ed altro primo Tenore. Se v’ha un
altro Basso, anche lui col titolo di primo, viene situato sotto di quello
assoluto.
Nell’opera semiseria e buffa, lo
stesso ordine di cartellone, meno che nel posto del primo Soprano o Contralto
vi passerà il Tenore, e nel posto del Tenore il primo Basso comico assoluto o
il primo Basso cantante, secondo il merito ed il credito dell’artista. Vengono
poi con lo stesso ordine i ballerini, e dopo i professori d’orchestra, pittore,
suggeritore, macchinista, sarto ed altri. Questo è il sistema generale de’
cartelloni teatrali. Da poco tempo in qua, per evitare i continui pettegolezzi,
per queste situazioni e per togliere la ridicolezza di tutte queste assoluzioni
e questi primati, fu posto in uso di situare il nome degli attori nel manifesto
come sta nel dramma unito a quello del personaggio che deve rappresentare.
Questa riforma non è stata cattiva, ma i più per non esser defraudati di posto,
di assoluzione e di titoli, hanno ricorso col mezzo di associarsi al censore
universale, ed appunto col cartellone come prima, i quali hanno dovuto cedere e
contentarli per mantenersi la loro clientela.
Talvolta, qualche primo tenore poco galante con le donne, o qualche donna primo musico o contralto, col mezzo del loro accreditato nome e con il sopravvento preso sull’impresario, hanno contrastato posto e cornice alla prima donna, per situarsi loro incorniciati in mezzo al suddetto cartellone.
Succede in allora una guerra aperta durante tutta la stagione, e guai per chi? per l’impresario.
Convenienze o litigi continui per la scelta delle opere; convenienze per le situazioni de’ pezzi nelle medesime; convenienze per le parti se non sono bilanciate giuste; convenienze per la carrozza che deve accompagnarli alle prove ed al teatro; convenienze per i camerini o spogliatoi e per l’illuminazione de’ medesimi; convenienze sulle ossequiose visite dell’impresario, de’ direttori, del maestro, del primo violino e d’altri. Insomma tutto è convenienza, o esca continua al disordine ed al litigio, e tutto tende ad ecclissarsi uno con l’altro, non per la via dell’emulazione ma per quella dell’invidia e dell’intrigo.
Qualche volta un impresario, non potendo sbilanciar le sue forze nell’acquisto di tre prime parti d’egual merito, sceglierà un valente artista tanto nell’uno che nell’altro sesso, per formarne il sostegno del suo spettacolo, e sul quale spenderà due terzi di quello che può assegnare a tutti e tre.
L’altre due prime parti bisogna
necessariamente che siano (come si suol dire) da poca spesa, e da poca spesa
significa di limitato talento. L’opera verrà scelta dal grande artista, o
d’intelligenza fra questo e l’impresario. Agli altri, che dalla disparità dell’appannaggio
dovrebbero misurare quella che passa anche in sapere, le basta il nome di prime
parti ed assolute nel cartellone al pari dell’altro, per credersi non solamente
al suo livello come in quel posto son nominati, ma ancora capaci di competerle
il successo. Malcontenti della scelta dell’opera, contrastano a chi potrebbe
servirle di maestro e d’appoggio le situazioni dei pezzi di musica, si
rifiutano di cantar con esso i pezzi d’insieme, se questi non si cambiano a
modo loro, ed infine non potendo con esso gareggiare per la loro insufficienza,
ne divengono i detrattori, col pretendere di rilevarne tutti i difetti, in
luogo di divenirne ammiratori e di servirsene di scuola. Si chiamano
sacrificati dall’impresario, e chiamano ingiusto ed ignorante il pubblico
perché prodiga i suoi applausi ad un solo. Questo succede spesso, ed anche fra
gl’artisti di prim’ordine, perché comunemente ognuno vorrebbe elevare il suo
edifizio sulle rovine altrui; e tanti che potrebbero e dovrebbero proteggere e
sostenere chi ha meno forza, procurano maggiormente di avvilirli col toglierli
i mezzi di progredire.
Le convenienze teatrali hanno i suoi sostegni ed i suoi baluardi ne’ mariti, ne’ padri e nelle madri delle virtuose. I mariti, in generale gente oziosa e che per lo più non esercita alcuna professione o mestiere, si trovano intrusi in tutte le faccende teatrali. Unitamente ai suddetti padri, tengono cattedra sempre per i caffè, e quello da loro più frequentato diviene il tempio di Momo. Là si taglia, si mormora, si satireggia, si bestemmia, si contrasta; si trasmigra gli eccellenti artisti in somari, i somari in talenti sommi; il vizio in virtù, la virtù in difetto, l’onestà in bordello, il bordello in modestia, ed infine, è l’emporio della maldicenza, della mormorazione e dello scandalo. Questi oziosi danneggiano le imprese come la tempesta danneggia i campi. Essi trattano di musica senza conoscerne il minimo principio, e ne decidono alla prima prova dell’effetto. Essi pretendono aggiungere, tagliare, cambiar parti, rovesciar drammi e spartiti adducendo immense bestialità per ragione.
Pretendono ridurre i costumi a modo loro e secondo il loro buon senso, col quale hanno fatto eterno divorzio. Se un maestro compositore scrive l’opera nuova, deve assoggettarsi al loro sano giudizio e deve il marito esser persuaso della parte scritta per la moglie; è come se dovessero cantare, agire, vestirsi in due, e in due scritturarsi. Parla a guisa d’una ditta: questa parte non ci sta bene, non potiamo cantarla, è troppo alta, o troppo bassa, bisogna riscriverla di nuovo; questo colore per l’abito non si adatta alla nostra figura; non vogliamo cantar l’aria in tal posto; ci scritturiamo per il tale e tal teatro, ed un’immensità di queste ributtanti caricature. Se il maestro non s’arma d’eccessiva pazienza e di una pacifica tolleranza con questi esseri perniciosi, guai per la sua musica. Se l’impresario propende in attenzioni più per una che per l’altra, si aspetti di dover soffrire le più acerbe angustie ed i più marcati dispetti.
Anche gl’uomini attaccati da questo contagio, sono irrequieti ed incontentabili, ma non formando ditta sociale, come le donne coi mariti, padri e madri, sono per conseguenza le loro testardaggini più pieghevoli e meno clamorose: dannose sempre per il buon ordine e per la quiete, che non sussiste mai.
Il primo barlume che traspare dalle prove d’un’opera sopra una parte che presenti qualche slancio di sicuro effetto, sia per l’interesse delle situazione, sia per il bello che affacci in tal pezzo la musica, sia per una bene accennata esecuzione, viene attaccato di fronte con tutte le armi della persecuzione, nascosta sotto i pretesti di violate convenienze, e con questi violenti mezzi sono arrivati perfino a rovesciare il promesso spettacolo al pubblico, ed a costringere l’impresario con suo notabil danno a cambiarlo.
Io mi ci sono trovato presente. A Roma, per contrastate convenienze di questa fatta fra due virtuose, furon sospese le avanzate prove d’un’opera preparata per il nove di settembre, e dopo spesi dieci giorni in ballottar la scelta d’un’altra, andare in scena invece al cinque d’ottobre. A me fruttò questo contrasto il risparmio di circa un mese di fatica, e di sostituire ad un’opera per me nuova un’altra che avevo già eseguita. Potei in tale occasione applicarmi quel detto “fra i due litiganti il terzo gode”, ma non godé l’impresario, quantunque fosse uno de’ primi signori di quella città. A Parigi per convenienze teatrali fra la nostra compagnia italiana furon sospese per sei mesi le prove degli “Orazî e Curiazî”, ed a Vienna altra volta per la stessa causa stette un mese circa il teatro senza opera italiana, per aver cagionato una febbre biliosa alla donna primo musico. Successer queste dove ne sono stato testimonio e parte nella compagnia: ne succedevano altrove delle simili, e ne succedono giornalmente.
La manovra di tutte queste cagioni proviene dall’invidia, dall’intrigo e da chi consuma nel suo studio più vino che odio, vale a dire dagli oziosi.
Da questo pernicioso attacco non vanno esenti che quelli tanto dell’uno che dell’altro sesso, che guidati da un giusto raziocinio, pensano soltanto ad applicarsi con amore dell’arte alle parti che le vengono affidate, assicurandosi che ognuno può vicendevolmente piacere, e che l’emulazione è la sola plausibil gara che deve soddisfare ogni artista. Meschina risorsa è quella di farsi largo a forza di cabala, d’impostura e d’intrigo.
Ho provato che la più bella
soddisfazione è quella di sentir le nostre gare gradite dal pubblico, e
coronarne tutti di vivi contrassegni d’approvazione. Quanto più dolce è il
riposo, preceduto dalla ricompensata fatica, senza rimorsi e senza il
dispiacere di vedere i compagni della propria professione avviliti per trionfar
solo!
ARTICOLO VIII ED ULTIMO – Quadro generale della moderna
rappresentazione in musica
La moderna rappresentazione dell’opera in musica, tanto seria, semiseria che buffa, deve per salvar le virtuose teatrali convenienze, formare un quadro quasi sempre simile e monotono.
All’alzar di sipario, in qualunque opera vedremo disposti in due parti, e quasi sempre formando un semicerchio, quel tal numero di coristi che suole assegnare il teatro, secondo il suo grado.
Se l’opera è seria, questa gente figurerà o Popolo o Guerrieri o Grandi del Regno o Magistrati ec. Se l’opera è semiseria, saranno o Paggi o Cortigiani o Vassalli di qualche feudatario. Se è buffa, o Contadini e Servitori, o Artigiani, o Sgherri ec., sempre però nello stesso numero, nella stessa posizione, e facendo lo stesso moto, quello cioè di alzare appena la metà d’un braccio.
Nell’opera seria è quasi sempre assegnata la prima sortita nell’introduzione, dopo il primo periodo di coro, al Basso, alla Seconda Donna ed al secondo Tenore, e spessissimo dopo questi esce anche il primo.
Siccome le moderne introduzioni
arrivano con la loro durata alla metà del prim’atto cosicché, quando sembra
finita, ricomincia un coro alla fine del quale esce la Prima Donna col seguito
di quattro o sei donnicciuole (se non vi son le coriste) che vanno e vengono
sempre ad essa accodate, non ad altro oggetto, le più volte, che per dovuto
ornamento. Al Basso, che per lo più rappresenta un sacerdote, gliene vengono
assegnati altri due o quattro che vanno sempre seco, e così comincia ad
ingombrarsi la scena. Al Tenore, prima della sua comparsa, le anderanno
incontro facendo pochi passi i coristi con un <<Vieni, vieni ec.>>:
sarà seguito da un drappello di soldati, e qualche volta ancora dalla banda
militare. Questi vanno disponendosi ad ingombrar la scena, e forma il solito
fisso e stabilito quadro al chiuder dell’Introduzione di quasi tutte le opere
serie.
La semiseria di poco sarà variata, e la buffa non ha l’Introduzione tanto lunga, e meno ingombra sarà la scena.
Il Finale nella prima comincerà
il suo quadro da un Coro, che sortendo i coristi marciando, giungono in mezzo
al palcoscenico, per dividersi metà per parte e situarsi verso i laterali.
Questo coro precede o preparati sponsali, o una festa, o una solenne adunanza,
che poi vengono obbligatamente scompigliate e sospese. Vengono poi, per lo più,
il Basso, il Tenore, la Prima Donna e seconde parti. Dopo un breve parlante
canteranno un terzetto o quartetto, alla fine del quale o si costringe una
figlia ad un detestato matrimonio già preparato, e questo viene interrotto dal
musico che arrivando rovescia tutto e finisce col farsi carcerare, o con altro
punto di scena a questo somigliante. Dopo un dibattimento, succede in calma una
generale parentesi che serve al largo cantabile. Si riprende poi il contrastato
punto, e si finisce o con un <<all’armi, cadrete o perfidi> o cosa
simile, o con le <<terribili procelle, Nembi addensati e neri, fulmina il
cielo irato, trema il suol, s’apre l’Averno, ec.>>, e questa generalmente
è la chiusa d’ogni prim’atto d’opera seria e semiseria.
Meno monotoni sono i Finali dell’opera buffa, ma chiudono tutti nella stessa guisa.
Meno monotoni sono i Finali dell’opera buffa, ma chiudono tutti nella stessa guisa.
Leggiamo cento de’ nostri drammi serii moderni, ne troveremo ottanta almeno tessuti ugualmente, e simili in tutte le sue parti; ed ecco un libro sempre uguale e monotono. Come mai potrà un poeta, anche di grandissima capacità nel drammatico, innestar sempre nella stessa maniera la condotta d’un fatto trovandosi così mal vincolato? E’ assai in giornata se vi troviamo una o due scene interessanti, mentre tutto viene stiracchiato e mal connesso. Deve esservi un’aria dove cadrebbe un terzetto, un duetto dove non potrebbe starvi che un’aria o un soliloquio e cavatina, un quartetto dove appena tre potrebbero comparire in tal punto di scena, e sempre così tutto fuori di situazione, tartassando il dramma per salvar le capricciose convenienze.
Il Musico ha quasi sempre due situazioni stabilite. Una sarà la sua prima sortita, preceduta da un lunghissimo ritornello strumentale, dopo del quale comparirà solo o sotto le mura d’una città nemica, dove però alberga la sua fiamma o la sua occulta sposa, o introdotto fuggiasco in una reggia o in un tempio. Avrà qui un lungo recitativo, e dopo di questo una mezza languida e mezza allegra cavatina. L’altra è il rondò dell’atto secondo che viene stabilito quasi sempre in carcere, alla metà del quale, da un coro di amici che prima si fa sentir di dentro e poi vien fuori a liberarlo porgendole un ferro vendicatore. Finisce la sua parte coll’esser trionfante sul Tenore, al quale vien sempre donata la vita per grazia, o per doverle divenir parente alla calata del sipario.
La Prima Donna dovrà avere obbligatoriamente tre duetti, e per lo più due col Musico ed uno col Tenore. Questi ancora hanno il suo posto fisso. Spesso ne viene omesso uno, e sarà naturalmente quello di riuscita meno gradevole al pubblico, o per cagione di troppa figurata fatica; ma il compositore tre ne deve scrivere, ed il poeta deve, in qualunque soggetto, trovare tre situazioni per duetto, anche se il fatto richiedesse che due non si dovessero vedere che verso la fine dell’opera. In oggi lo spettacolo deve chiudere con grande aria e variazioni della prima donna anche poco adattata a tal genere di canto: ma se poi non lo fosse punto, potrà cantarle il Musico, il Tenore, ed anche il Basso purché l’opera così finisca.
Al Tenore le viene assegnata quasi sempre una cavatina o nell’Introduzione, o poco dopo; un duetto alla metà dell’atto primo, ed uno al cominciar dell’atto secondo; ed una grande scena ed aria con cori. Letto dunque che avremo un dramma, gli abbiamo letti quasi tutti, mentre vi troveremo simili ancora i cambiamenti di scena. L’obbligata situazione e sempre simile de’ pezzi vocali, cagiona la somiglianza fra loro. Nei duetti dell’atto primo, lo stesso metro, lo stesso punto di scena, le stesse cadenze, la somiglianza ne’ cantabili e quella delle (così dette) cabalette, che par sempre di sentire lo stesso pezzo in tutte le opere. Altrettanto nelle cavatine tutte, e specialmente nei rondò in carcere, che tutti si somigliano. Poco colpa hanno i maestri compositori se divengon plagiari, perché vi sono spinti dalla necessità di far tutto quello che ha fatto un altro; ed ecco il quadro generale d’ogni nostro moderno spettacolo in musica.
Questo mio opuscolo, scritto alla meglio, perché poco io so, e per fuggir l’ozio nelle ore noiose di questa stagione estiva, comunque sia trovato, mi protesto che non tende ad offendere nessun individuo, né a servire ad alcuno di precettore, ma soltanto a trattar d’una materia che ventisei anni di carriera teatrale mi hanno fatta conoscere e rilevare la quantità dei difetti che vi ho trovati, dei quali anch’io ho avuta la mia parte, e che tuttora vi si mantengono nel suo pieno vigore.
Qualunque artista vi troverà i suoi, perché nessuno ne va affatto esente, non essendo concesso ai mortali l’esser perfetti: ma in quelli che fanno onore alla nostra Italia ed alle nostre musicali scene, i difetti saranno pochi, e questi pochi divengono nei, come quelli in disegno trovati in qualche quadro del Tiziano o del Correggio. Chi non perdonerà un difetto o di pronunzia, o di sceneggio, o di figura, o di voce o d’altro, a chi ha il potere di trasportarci co’ suoi talenti all’entusiasmo? Procuri ognuno che si dedica a quest’arte, di divenirne emulo, che i difetti spariranno, conforme cresceranno le cognizioni ed il sapere.
Alla gioventù che si dispone a calcar le scene, io lo dedico; ed alle direzioni degli spettacoli in musica ed impresarii, se trovano vero quanto ho esposto, possa servir di stimolo a dare una mano a questa necessaria ripulita, e ridurre la nostra opera in musica il modello dell’esattezza.