Cari cantanti, studenti e insegnanti di canto, musicisti e appassionati, siamo lieti di potervi presentare, proprio da Recanati, il saggio “Dell’Opera in Musica” del 1833 del celebre Tacchinardi, tenore dell’Ottocento, nonché insegnante di canto e regista “in nuce”!
Nicola (o Niccolò) Tacchinardi (Livorno, 3 settembre 1772 - Firenze, 14 marzo 1859), oltre ad essere stato uno dei più grandi interpreti dell' "Otello" di Rossini, interpretò anche opere del suo futuro genero Giuseppe Persiani quali "Attila in Aquileia" al Teatro Ducale di Parma nel 1827 e "Gastone di Foix" alla Fenice di Venezia sempre nel 1827.
Era dotato di tecnica superba, particolarmente «per il fraseggio, la padronanza della respirazione e l'agilità». [Francesco Bussi, Tacchinardi, Nicola, in Stanley Sadie (a cura di), The New Grove Dictionary of Opera, Volume Four, Oxford University Press, 2004]
In "Rossini e la Musica, ossia Amena Biografia Musicale, Almanacco per l'anno 1827. Anno I.°" così vengono sintetizzante le sue qualità vocali: <<I meriti principali che vengono attribuiti al canto del Sig. Tacchinardi sono robustezza sonora, nitidezza infinita, agilità della voce che lo tramanda, e intelligenza di adattarlo alla scena. Le sue primarie arene di gloria furono Parigi, Roma, Venezia ove destò entusiasmo inenarrabile nell' "Otello", e il R. Teatro di Torino, d'onde, sostenendo la parte di Jarba nella "Didone", le fioriture del suo canto ebbero palma su quelle del soprano Velluti.>>
In "Rossini e la Musica, ossia Amena Biografia Musicale, Almanacco per l'anno 1827. Anno I.°" così vengono sintetizzante le sue qualità vocali: <<I meriti principali che vengono attribuiti al canto del Sig. Tacchinardi sono robustezza sonora, nitidezza infinita, agilità della voce che lo tramanda, e intelligenza di adattarlo alla scena. Le sue primarie arene di gloria furono Parigi, Roma, Venezia ove destò entusiasmo inenarrabile nell' "Otello", e il R. Teatro di Torino, d'onde, sostenendo la parte di Jarba nella "Didone", le fioriture del suo canto ebbero palma su quelle del soprano Velluti.>>
Dopo 27 anni di carriera, cantando, tra il 1803 e il 1831, in innumerevoli opere di Mozart, Salieri, Paisiello, Cimarosa, Rossini, del già citato Persiani, e di Zingarelli, Morlacchi, Paer, Mayr, Mercadante, Pacini, Meyerbeer, nei maggiori teatri italiani dell'epoca, tra cui La Scala di Milano, la Fenice di Venezia, l'Argentina di Roma e il San Carlo di Napoli, e all'estero a Parigi, Vienna e Barcellona, si ritirò dedicandosi principalmente all'insegnamento del canto lirico e scopritore di talenti e collaboratore, con consigli ed interventi personali, in allestimenti di impresari suoi amici, e, come lo stesso Tacchinardi rivela, "Direttore di scena" al Teatro Privato di Corte del Granduca di Toscana, "direttore, autore, pittore e macchinista" nel suo teatrino di campagna dove faceva fare esperienza ai suoi allievi e poi al Carcano nella stagione estivo-autunnale del 1833, a fianco di sua figlia Fanny primadonna.
Autore di una raccolta di "Esercizi per lo studio del canto", Tacchinardi ci ha lasciato, tra l'altro, un suo breve trattato, di importanza capitale in particolare per argomenti come la costumistica teatrale e la messa in scena dei melodrammi, intitolato "Dell'opera in musica sul teatro italiano e de' suoi difetti", Firenze, presso Giovanni Berni, 1833, nel qual saggio egli tratta anche temi quali la tecnica vocale e l'arte scenica.
Sua figlia Fanny Tacchinardi-Persiani, che fu sua allieva di canto, fu la creatrice assoluta di ben tre ruoli donizettiani, tra i quali il personaggio di Lucia di Lammermoor di Donizetti, nonché moglie, dal 1829 in poi, del compositore recanatese Giuseppe Persiani del quale rese celebre in Italia e all'estero il suo capolavoro "Ines de Castro", una perla operistica del Bel Canto italiano.
Il Soprano Fanny Tacchinardi |
Tra i suoi allievi, non si può non ricordare anche il soprano Erminia Frezzolini che fu la prima Giselda, ne "I Lombardi alla prima crociata" di Giuseppe Verdi, interpretò la parte del titolo nella "Giovanna d'Arco" di Verdi nel 1845, e a New York fu la prima Gilda nel "Rigoletto".
Il Soprano Erminia Frezzolini |
Ecco per tutti voi questo illuminante testo, che dovrebbe far riflettere sia gli studenti e docenti di musica e di canto in particolare, che gli operatori dello spettacolo, così come il semplice pubblico.
Buona lettura!
Buona lettura!
Dell’Opera in Musica sul Teatro Italiano e de’ suoi difetti
Opuscolo di Nicola TACCHINARDI, artista toscano
Firenze, presso Giovanni Berni 1833
Opuscolo di Nicola TACCHINARDI, artista toscano
Firenze, presso Giovanni Berni 1833
ARTICOLO I - Cosa sia l’opera in musica : suo principio in Italia, suoi progressi, e provenienza de’ suoi difetti
ARTICOLO II – Della pronunzia. Come si dovrebbe pronunziare, e come ordinariamente vengono pronunziati i versi e le parole nella nostra opera in musica
ARTICOLO III – DELLA SCUOLA DEL CANTO - Quale sia applicabile all’opera seria, alla semiseria e buffa
ARTICOLO IV – Della figura e della maniera di vestirsi in teatro
ARTICOLO V – Del gesto e sceneggiamento
ARTICOLO VI – Analogia, illusione e buon senso
ARTICOLO VII – Delle convenienze
ARTICOLO VIII ED ULTIMO – Quadro generale della moderna rappresentazione in musica
AVVERTIMENTO al Lettore
I difetti teatrali in generale, dai quali fu purgato il teatro, erano tali ne’ suoi principii, che s. Cipriano ne chiamò le sue produzioni “pudoris pubblici lupanarium, obscenitatem magisterium” (lib. 4 de prov.) e Quintiliano “In insectandis vitiis praecipuae”. Vi si scagliarono contro altri santi padri, come s. Basilio, s. Gio. Crisostomo, e s. Agostino.
ARTICOLO II – Della pronunzia. Come si dovrebbe pronunziare, e come ordinariamente vengono pronunziati i versi e le parole nella nostra opera in musica
ARTICOLO III – DELLA SCUOLA DEL CANTO - Quale sia applicabile all’opera seria, alla semiseria e buffa
ARTICOLO IV – Della figura e della maniera di vestirsi in teatro
ARTICOLO V – Del gesto e sceneggiamento
ARTICOLO VI – Analogia, illusione e buon senso
ARTICOLO VII – Delle convenienze
ARTICOLO VIII ED ULTIMO – Quadro generale della moderna rappresentazione in musica
AVVERTIMENTO al Lettore
I difetti teatrali in generale, dai quali fu purgato il teatro, erano tali ne’ suoi principii, che s. Cipriano ne chiamò le sue produzioni “pudoris pubblici lupanarium, obscenitatem magisterium” (lib. 4 de prov.) e Quintiliano “In insectandis vitiis praecipuae”. Vi si scagliarono contro altri santi padri, come s. Basilio, s. Gio. Crisostomo, e s. Agostino.
In seguito ne parlò il Concina, il Maffei, il padre Bianchi, esponendoli in sei ragionamenti, ed altri. Ne restaron molti, sino ai nostri tempi, nelle mimiche rappresentazioni, nelle commedie, e particolarmente in quelle recitate a soggetto, e nelle opere buffe, sintanto che i governi, e la censura, non vi dettero un taglio deciso; e con la loro indefessa vigilanza, il teatro moderno venne gastigato, e ridotto nel buon costume esemplare, come in oggi lo vediamo.
I difetti dell’opera in musica, sul nostro teatro italiano, de’ quali m’accingo a parlare, non sono né scandalosi, né contrari all’onesta riforma, ma tali che la rendono e la renderanno sempre informe ed imperfetta, fintanto che questi non verranno proscritti, e medicata la causa dalla quale essi provengono.
ARTICOLO I - Cosa sia l’opera in musica : suo principio in Italia, suoi progressi, e provenienza de’ suoi difetti
ARTICOLO I - Cosa sia l’opera in musica : suo principio in Italia, suoi progressi, e provenienza de’ suoi difetti
L’opera in musica è quella drammatica rappresentazione, composta per il canto, ed accompagnata da una piena orchestra.
L’uso di questa composizione ebbe il suo principio in Firenze verso la fine del secolo decimosesto con un dramma del Rinuccini intitolato “L’Euridice” posto in musica da due rinomati maestri di quel tempo, Peri e Caccini.
Venezia fu la seconda città che vide l’opera in musica, con “L’Orfeo” del Monteverde. In seguito, queste opere aumentarono di numero a segno che, alla metà del decimosettimo secolo, se ne contavano più di cinquecento.
Il teatro comico in allora pieno di scurrilità, di difetti e di un ammasso di licenze, ne attaccò in parte il suo contagio anche all’opera in musica; ma al comparir d’Apostolo Zeno e del nostro incomparabil Metastasio, furono per mezzo delle loro opere, e massimamente per le sublimi di quest’ultimo, banditi dalla pubblica scena un’immensità di assurdi, di mostruosità e d’anacronismi.
Così ripulita la nostra opera in musica, progredì e fece a grado a grado quegl’avanzamenti, tanto nell’orchestra, con introdurvi maggior quantità di strumenti, particolarmente da fiato, parte non conosciuti in avanti, e parte fuor d’uso, tanto con l’aumento del pieno spettacolo, introducendo ed accrescendo cori a tutte voci, di bande militari, e di magnificenza nel vestiario da non poter desiderare nell’insieme maggiore sfarzo e maggior decoro.
Ma le convenienze teatrali, questa peste prodotta dall’ignoranza, dal capriccio, dall’invidia, e la negligenza de’ nostri virtuosi cantanti in generale, v’introdussero una quantità di difetti, a discapito del buon senso, dell’arte e dell’illusione, che rendono questo gran quadro scorretto in molte parti, e così dalla tolleranza mantenuto quando potrebbesi ridurlo alla sua perfezione.
Il dramma per musica sarebbe di due sole qualità: cioè serio e buffo, ma lo diremo di tre, poiché ve n’è stato introdotto un terzo, col nome di semiserio.
Al serio appartiene la tragedia, qualunque fatto eroico, mitologico e spettacoloso. Al buffo, il giuocoso e la commedia di carattere. Al semiserio, il romantico, o misto fra ‘l serio e buffo.
I cantanti, chiamati ancora virtuosi e artisti, ne sono gl’attori, e le loro qualità sono i tenori, soprani, contralti, bassi e buffi, ovvero bassi comici, poiché questi non appartengono che alla sola opera buffa.
Tali artisti, che indossano il carico di rappresentar cantando tragedie, drammi di sentimento e giuocosi, mitologici o favolosi, dovrebbero esser muniti indispensabilmente de’ seguenti attributi:
sonora ed intuonata voce; arte nel canto; chiara e corretta, pronunzia; ragionata declamazione e possesso di scena; decenza nel vestirsi e nel presentarsi in pubblico; nobiltà nell’agire, brio e conoscenza di ballo nelle parti giuocose, saper bene maneggiar le armi chi fa le parti da uomo; cognizione (almeno superficiale) della storia, favola o mitologia, ed in fine, una dose di cultura necessaria a spiegar gl’affetti e le passioni dell’animo, onde render naturale allo spettatore tuttociò che sulla scena si finge.
Dovrebbe l’opera in musica esser posta in scena con la massima esattezza in tutte le sue parti, ed a tale oggetto il teatro dovrebbe esser sempre provvisto d’un direttore di spettacolo, al quale non manchi né cognizioni né pratica su quanto ad esso appartiene.
Il vestiario dovrebbe sempre corrispondere all’epoca ed al costume della nazione che ne rappresenta il soggetto.
Non si dovrebbe mai permettere agli attori cantanti di vestirsi a loro capriccio, ma provveduti de’ modelli o figurini del costume analogo all’opera, farli eseguire ai costumieri o sarti teatrali, senza alterazioni o cambiamenti, meno che qualche piccola modificazione per adattarsi alla figura dell’attore o attrice.
Ne’ dipinti delle scene dovrebbe sempre riscontrarvisi il carattere de’ luoghi e dell’epoca. Gli attrezzi, come suppellettili, mobili, utensili, armi, armature che formano gl’accessori alla rappresentazione, dovrebbero anch’essi conservarne il preciso carattere. Dovrebbe in somma essere scrupolosamente osservato che tutto l’insieme divenisse ragionato, corretto, massime ne’ teatri di prim’ordine, dove la cultura dell’uditorio trovasse nella nostra opera in musica condotta, esattezza, analogia ed illusione.
Quali siano i marcati difetti che anderebbero tolti radicalmente, verranno spiegati ne’ seguenti articoli.
ARTICOLO II – Della pronunzia. Come si dovrebbe pronunziare, e come ordinariamente vengono pronunziati i versi e le parole nella nostra opera in musica
Per ben pronunziare anche cantando, bisogna sapere ben leggere e ben sillabare. Chi non è toscano e romano cade facilmente nel pronunziar difettoso, per motivo de’ propri dialetti; e perciò è necessario che si conosca ne’ versi come son poste tutte le consonanti, per dividerle in sillabe e per non toglierne dove ne son più d’una unite, e non raddoppiarle dove non sono. La consonante si deve sentire anche in fine della parola abbenché non sia facile in luogo spazioso. Il moto della lingua v’influisce molto, come per esempio “Il mio furor” per far ben sentire la lettera “r” finale, vi si spinga la lingua verso il palato e ne’ denti superiori, senza prolungarvisi, per non dir “furorre”. Con questo moto di lingua potrete far sentire “Amor, Furor, lasciar, brandir, contaminar, fuggir” ed altre. La lettera “l” in fine d’una parola è più facile a perdersi, o raddoppiarla, come spesso sentiamo pronunziare o “ciè” o “cielle”. La lingua dunque deve esser spinta più ancora che nella finale “r” e voltata verso il palato, ed allora potrete far ben sentire “Fratel, Avel, Drappel” o simili. Per far sentire la parola “Andiam, Fuggiam, Corriam” è necessario chiudere bene la bocca, mandando il fiato per le narici, diversamente si sentirà “Andiamme, Fiuggiamme, Corriame” ec. Ricordarsi che nella lingua italiana le parole devono esser pronunziate come sono scritte, altrimenti non sono più parole italiane.
La trascuranza de’ nostri cantanti in generale, su questo importante articolo, produce tutti quegli aborti di stroppiate parole che continuamente sentiamo nella nostra opera in musica. Ognuno pronunzia la lingua italiana composta a seconda degli accenti e desinenze del proprio paese, ed ecco come comunemente si sentono spiegati i versi e le parole in teatro: “rrabia, furror, dispèto, ingombrano il mio pèto: Versa-t-tuto il mio-s-sangue: Un vago amoreto, un genio perfeto: Ramenta-s-solo o ecelso Erroe. Per si bèla cagion, bèlo è il morirre. Erando m’affreto: Scenda beninio un nume: Filia, la tua proposta accèto: Dopo tant’ani e tanti: Qual forza iniota or questo-f-fèro arèsta: Al’armi, a la punia: Si vada, si cora: La mia virtù commincia a vaccilar: padre tirrano: Al nume altitonnante: Affeti miei cellatevi nel corre” ed altri modellati su questi. Vi sono di quelli che cambiano spesso un “o”, in “u”, come in luogo di “Furore” diranno “Furure”, “Candure” per “Candore”, “Ardure” per “Ardore” ed altri. V’ha chi accenta le vocali dove non sono, come “quello che volgi a mè, serbalo in tè: Bel Nume t’adòro: Èsca fatal” ec. Altri aggiungono qualche vocale in mezzo alle consonanti, credendo di dar più grazia alla parola, come “Fischia il veneto, Per questo amaro pianeto, Vagheggiarela vorrei: Risplenede sereno, I miei lameneti” e simili.
Infine ve ne sono molti che si mangiano le finali, per cui non si capisce una parola; ed una voce che non spiega quello che dice, suona e non canta. Pretende qualcuno difendere questa mostruosa maniera di pronunziare appoggiandone la causa all’abitudine de’ proprî italiani dialetti, per i quali il movimento della lingua (dicono) è divenuto difettoso: ma non è soddisfacente ragione. I piemontesi, i genovesi, i veneziani, i bolognesi, i lombardi tutti, ed i napoletani, hanno una quantità di persone colte che parlano la lingua italiana perfettamente, abbenché usati ne’ particolari loro dialetti. Per tutto vi sono buone scuole di lingua italiana; per tutto vi sono biblioteche per esercitar la lettura; il solo difetto è dunque la trascuranza: e questa si rende imperdonabile ne’ nostri attori cantanti.
Chi parla in pubblica arena è obbligato a parlar corretto, ed è uno sfacciato quello che vi si presenta privo d’un attributo tanto importante. Mai potrà interessar lo spettatore chi rappresenta un personaggio senza far intender quello che dice, o balbettando.
Mettiamo i versi del sublime Metastasio, ed altri di interessantissime scene, in bocca di questi attori, e si osservi poi se l’orecchio non ripugna in sentirli così adulterati? Ecco il motivo per cui le nostre opere in musica riescono per lo più insipide, e vengono spesso falcidiate dopo la prima recita, e ridotte ad insignificanti accademie con gl’abiti teatrali. Risponderà qualcuno che nell’opera in musica basta cantar bene e sentir de’ buoni pezzi, il pubblico si contenta. Ma come mai può cantar bene chi massacra le parole, quando il sillabare forma una parte del bel canto? Come può conservar la sua bellezza e la sua filosofia un bel pezzo di musica, tartassata che venga la parte che ne deve spiegare il sentimento? Si dica piuttosto che le orecchie del pubblico, assuefatte a sopportar spropositi, credendoli ormai incorreggibili, poco li bada, contentandosi di capirne il barlume, ma li baderebbe bene, se una volta per massima generale dovessero esser corretti e banditi.
Tempo indietro, veniva tollerata nei teatri (ed anche in quelli di prim’ordine) l’illuminazione a padelle di strutto, e l’orchestra in candele di sevo, e quantunque oltre all’esser poco decente, spandeva cattivo odore, l’abitudine la faceva sopportare. Sarebbe tollerata adesso anche nel più infimo teatro? No! Così succederebbe de’ difetti una volta che venissero proscritti.
Abbiamo avuto ed abbiamo ancora sul nostro teatro d’opera in musica, abbenché in pochissimo numero, de’ rispettabili artisti che quantunque non siano toscani o romani, il loro buon criterio gli ha portati ad occuparsi della pronunzia come di cosa essenziale, e vi sono perfettamente riusciti: questi possino servire di norma alla gioventù d’ambo i sessi che voglion dedicarsi alla teatrale carriera, e pensare che il pronunziar bene, guadagna all’artista una gran parte del buon successo alle sue fatiche.
Il vestiario dovrebbe sempre corrispondere all’epoca ed al costume della nazione che ne rappresenta il soggetto.
Non si dovrebbe mai permettere agli attori cantanti di vestirsi a loro capriccio, ma provveduti de’ modelli o figurini del costume analogo all’opera, farli eseguire ai costumieri o sarti teatrali, senza alterazioni o cambiamenti, meno che qualche piccola modificazione per adattarsi alla figura dell’attore o attrice.
Ne’ dipinti delle scene dovrebbe sempre riscontrarvisi il carattere de’ luoghi e dell’epoca. Gli attrezzi, come suppellettili, mobili, utensili, armi, armature che formano gl’accessori alla rappresentazione, dovrebbero anch’essi conservarne il preciso carattere. Dovrebbe in somma essere scrupolosamente osservato che tutto l’insieme divenisse ragionato, corretto, massime ne’ teatri di prim’ordine, dove la cultura dell’uditorio trovasse nella nostra opera in musica condotta, esattezza, analogia ed illusione.
Quali siano i marcati difetti che anderebbero tolti radicalmente, verranno spiegati ne’ seguenti articoli.
ARTICOLO II – Della pronunzia. Come si dovrebbe pronunziare, e come ordinariamente vengono pronunziati i versi e le parole nella nostra opera in musica
Per ben pronunziare anche cantando, bisogna sapere ben leggere e ben sillabare. Chi non è toscano e romano cade facilmente nel pronunziar difettoso, per motivo de’ propri dialetti; e perciò è necessario che si conosca ne’ versi come son poste tutte le consonanti, per dividerle in sillabe e per non toglierne dove ne son più d’una unite, e non raddoppiarle dove non sono. La consonante si deve sentire anche in fine della parola abbenché non sia facile in luogo spazioso. Il moto della lingua v’influisce molto, come per esempio “Il mio furor” per far ben sentire la lettera “r” finale, vi si spinga la lingua verso il palato e ne’ denti superiori, senza prolungarvisi, per non dir “furorre”. Con questo moto di lingua potrete far sentire “Amor, Furor, lasciar, brandir, contaminar, fuggir” ed altre. La lettera “l” in fine d’una parola è più facile a perdersi, o raddoppiarla, come spesso sentiamo pronunziare o “ciè” o “cielle”. La lingua dunque deve esser spinta più ancora che nella finale “r” e voltata verso il palato, ed allora potrete far ben sentire “Fratel, Avel, Drappel” o simili. Per far sentire la parola “Andiam, Fuggiam, Corriam” è necessario chiudere bene la bocca, mandando il fiato per le narici, diversamente si sentirà “Andiamme, Fiuggiamme, Corriame” ec. Ricordarsi che nella lingua italiana le parole devono esser pronunziate come sono scritte, altrimenti non sono più parole italiane.
La trascuranza de’ nostri cantanti in generale, su questo importante articolo, produce tutti quegli aborti di stroppiate parole che continuamente sentiamo nella nostra opera in musica. Ognuno pronunzia la lingua italiana composta a seconda degli accenti e desinenze del proprio paese, ed ecco come comunemente si sentono spiegati i versi e le parole in teatro: “rrabia, furror, dispèto, ingombrano il mio pèto: Versa-t-tuto il mio-s-sangue: Un vago amoreto, un genio perfeto: Ramenta-s-solo o ecelso Erroe. Per si bèla cagion, bèlo è il morirre. Erando m’affreto: Scenda beninio un nume: Filia, la tua proposta accèto: Dopo tant’ani e tanti: Qual forza iniota or questo-f-fèro arèsta: Al’armi, a la punia: Si vada, si cora: La mia virtù commincia a vaccilar: padre tirrano: Al nume altitonnante: Affeti miei cellatevi nel corre” ed altri modellati su questi. Vi sono di quelli che cambiano spesso un “o”, in “u”, come in luogo di “Furore” diranno “Furure”, “Candure” per “Candore”, “Ardure” per “Ardore” ed altri. V’ha chi accenta le vocali dove non sono, come “quello che volgi a mè, serbalo in tè: Bel Nume t’adòro: Èsca fatal” ec. Altri aggiungono qualche vocale in mezzo alle consonanti, credendo di dar più grazia alla parola, come “Fischia il veneto, Per questo amaro pianeto, Vagheggiarela vorrei: Risplenede sereno, I miei lameneti” e simili.
Infine ve ne sono molti che si mangiano le finali, per cui non si capisce una parola; ed una voce che non spiega quello che dice, suona e non canta. Pretende qualcuno difendere questa mostruosa maniera di pronunziare appoggiandone la causa all’abitudine de’ proprî italiani dialetti, per i quali il movimento della lingua (dicono) è divenuto difettoso: ma non è soddisfacente ragione. I piemontesi, i genovesi, i veneziani, i bolognesi, i lombardi tutti, ed i napoletani, hanno una quantità di persone colte che parlano la lingua italiana perfettamente, abbenché usati ne’ particolari loro dialetti. Per tutto vi sono buone scuole di lingua italiana; per tutto vi sono biblioteche per esercitar la lettura; il solo difetto è dunque la trascuranza: e questa si rende imperdonabile ne’ nostri attori cantanti.
Chi parla in pubblica arena è obbligato a parlar corretto, ed è uno sfacciato quello che vi si presenta privo d’un attributo tanto importante. Mai potrà interessar lo spettatore chi rappresenta un personaggio senza far intender quello che dice, o balbettando.
Mettiamo i versi del sublime Metastasio, ed altri di interessantissime scene, in bocca di questi attori, e si osservi poi se l’orecchio non ripugna in sentirli così adulterati? Ecco il motivo per cui le nostre opere in musica riescono per lo più insipide, e vengono spesso falcidiate dopo la prima recita, e ridotte ad insignificanti accademie con gl’abiti teatrali. Risponderà qualcuno che nell’opera in musica basta cantar bene e sentir de’ buoni pezzi, il pubblico si contenta. Ma come mai può cantar bene chi massacra le parole, quando il sillabare forma una parte del bel canto? Come può conservar la sua bellezza e la sua filosofia un bel pezzo di musica, tartassata che venga la parte che ne deve spiegare il sentimento? Si dica piuttosto che le orecchie del pubblico, assuefatte a sopportar spropositi, credendoli ormai incorreggibili, poco li bada, contentandosi di capirne il barlume, ma li baderebbe bene, se una volta per massima generale dovessero esser corretti e banditi.
Tempo indietro, veniva tollerata nei teatri (ed anche in quelli di prim’ordine) l’illuminazione a padelle di strutto, e l’orchestra in candele di sevo, e quantunque oltre all’esser poco decente, spandeva cattivo odore, l’abitudine la faceva sopportare. Sarebbe tollerata adesso anche nel più infimo teatro? No! Così succederebbe de’ difetti una volta che venissero proscritti.
Abbiamo avuto ed abbiamo ancora sul nostro teatro d’opera in musica, abbenché in pochissimo numero, de’ rispettabili artisti che quantunque non siano toscani o romani, il loro buon criterio gli ha portati ad occuparsi della pronunzia come di cosa essenziale, e vi sono perfettamente riusciti: questi possino servire di norma alla gioventù d’ambo i sessi che voglion dedicarsi alla teatrale carriera, e pensare che il pronunziar bene, guadagna all’artista una gran parte del buon successo alle sue fatiche.
ARTICOLO III – DELLA SCUOLA DEL CANTO - Quale sia applicabile all’opera seria, alla semiseria e buffa
La scuola del canto che serve al teatro è di tre qualità: di canto di forza o declamato, di canto affettuoso o legato, e di canto brillante o di agilità.
V’ha un’altra qualità di canto, ma che non forma scuola a parte. Questo è il canto parlante o sillabico, che serve soltanto al giuoco dell’opera buffa.
La scuola del canto che serve al teatro è di tre qualità: di canto di forza o declamato, di canto affettuoso o legato, e di canto brillante o di agilità.
V’ha un’altra qualità di canto, ma che non forma scuola a parte. Questo è il canto parlante o sillabico, che serve soltanto al giuoco dell’opera buffa.
Il canto declamato, o di forza, è da applicarsi per lo più al tenore e soprano, ma può servire ancora al contralto ed al basso. Nel tenore richiede, oltre la forza e robustezza di voce, estensione nelle corde di petto. Nella donna, o soprano, estensione ed eguaglianza di forza in tutte le corde. Nel contralto, forza e chiarezza nelle corde centrali. Nel basso, sonora voce ed imponente. A queste qualità, deve esservi unita una chiara e netta pronunzia.
Dotato il tenore dalla natura di quanto abbisogna per il canto declamato, deve cominciare la sua scuola dal riconoscere la giusta e naturale estensione della sua voce, e dettagliatamente nota per nota riscontrarne la propria forza. Tutto questo potrà farlo per mezzo d’una scala diatonica di semibrevi alquanto sostenute, partendosi dal Do sotto le righe, e salendo a grado a grado fin dove arriva con le corde di petto, e poi egualmente discendere fino alla nota più bassa che la natura le ha dato. Con questo mezzo, riscontrerà se le voci son tutte di egual forza, ed intuonate.
Dotato il tenore dalla natura di quanto abbisogna per il canto declamato, deve cominciare la sua scuola dal riconoscere la giusta e naturale estensione della sua voce, e dettagliatamente nota per nota riscontrarne la propria forza. Tutto questo potrà farlo per mezzo d’una scala diatonica di semibrevi alquanto sostenute, partendosi dal Do sotto le righe, e salendo a grado a grado fin dove arriva con le corde di petto, e poi egualmente discendere fino alla nota più bassa che la natura le ha dato. Con questo mezzo, riscontrerà se le voci son tutte di egual forza, ed intuonate.
Se ve ne troverà qualcuna più debole delle altre, non si ostini a volerla rinforzare faticandoci, né piccarsi di acquistarne oltre a quelle che li presenta la naturale estensione, perché le succederà che per acquistarne una, ne indebolirà sei. Quelle voci che vogliamo procurarci sforzandoci escono a detrimento del nostro fisico, quando la laringe non ce le presenta naturali, e se ve ne restano delle occulte, il tempo ed il naturale esercizio le scuopre senza il bisogno di ricercarle con la forza. Lo studio potrà ammorzare il difetto di qualcuna che sia poco intuonata.
Regolato questo, bisogna procurare di render la voce flessibile senza faticarla. L’esercizio e lo studio devono esser le molle principali per renderla obbediente, e chi l’ha forte avvezzarsi a cantar piano, cosa che non troverà troppo facile, ma necessaria. La prima cura del cantante deve esser dunque quella di conservar la voce, e non di logorarla. Qualunque sforzo vien dai polmoni, ed oltre i suoni difettosi che usciranno con tal mezzo, cagionerà al cantante la poca durata (come in giornata ne sentiamo) che finiscono appena aver cominciato.
Regolato questo, bisogna procurare di render la voce flessibile senza faticarla. L’esercizio e lo studio devono esser le molle principali per renderla obbediente, e chi l’ha forte avvezzarsi a cantar piano, cosa che non troverà troppo facile, ma necessaria. La prima cura del cantante deve esser dunque quella di conservar la voce, e non di logorarla. Qualunque sforzo vien dai polmoni, ed oltre i suoni difettosi che usciranno con tal mezzo, cagionerà al cantante la poca durata (come in giornata ne sentiamo) che finiscono appena aver cominciato.
Il cantante con tutta la forza non deve esser posto in uso che ne’ momenti in cui l’azione e la parola lo richiede, e di questi momenti ne abbiamo spesso nelle scene imponenti, e nelle quali (quando veramente si sente con l’anima quello che si dice) l’energia ci trasporta al di là delle proprie forze, ponendoci le fibre ed i nervi in una tensione tale, che da noi escono delle voci che non abbiamo in natura, e (guai se le volessimo rinvenire a sangue freddo) mentre queste non provengono che dallo stato d’alterazione in cui ci troviamo allora: e se per far sentire che siamo sempre padroni della nostra forza e della nostra piena voce la spendiamo ancora dove non fa bisogno, ci assoggettiamo a due dispiacenti effetti: il primo, che si diverrà monotoni all’orecchio del pubblico, ed il secondo, che al nostro edifizio ci marciranno presto i fondamenti. Tutto si logora, ed i nostri organi non sono d’acciaio.
Il tenore, anche di voce estesa e forte, sarà sempre di sua natura delicato, per la sua fatica nel canto è poco appoggiata alla laringe ed agli organi della gola, ma molto a quelli del petto, come ai bronchi ed ai polmoni.
Il basso è più resistente, quantunque la sua fatica venga dal petto, ma siccome l’estensione della voce è più circoscritta, gli organi per conseguenza ne risenton meno.
La voce di soprano è meno soggetta ad indebolirsi perché può spingere il canto declamato sulle corde di testa. Il contralto è soggetto alla poca durata perché la limitata estensione l’obbliga spesso ad uscir dal suo registro, e le voci sforzate a lungo giuoco guastan le naturali.
Il basso è più resistente, quantunque la sua fatica venga dal petto, ma siccome l’estensione della voce è più circoscritta, gli organi per conseguenza ne risenton meno.
La voce di soprano è meno soggetta ad indebolirsi perché può spingere il canto declamato sulle corde di testa. Il contralto è soggetto alla poca durata perché la limitata estensione l’obbliga spesso ad uscir dal suo registro, e le voci sforzate a lungo giuoco guastan le naturali.
L’arte sola può mantenere equilibrata la nostra forza nel canto contenendo l’ordine di spender la voce.
Il tenore di forza avrà la voce alquanto dura, e quasi niente agile. Per renderla pieghevole, dovrà quando comincia il suo studio tenere il presente sistema: spiegarla nella sua forza naturale dal principio delle scale fino al Re in quarto spazio, e giunto smorzando a poco a poco al Fa attaccarvi le corde di testa, e salire così coi falsetti fino al Do e più ancora se ve ne sono chiari, e non stentati.
Il tenore di forza avrà la voce alquanto dura, e quasi niente agile. Per renderla pieghevole, dovrà quando comincia il suo studio tenere il presente sistema: spiegarla nella sua forza naturale dal principio delle scale fino al Re in quarto spazio, e giunto smorzando a poco a poco al Fa attaccarvi le corde di testa, e salire così coi falsetti fino al Do e più ancora se ve ne sono chiari, e non stentati.
Questi suoni dovrà tenerli tutti bilanciati nella forza della nota più debole, e così tornare a discendere. Quando la voce sarà assuefatta a quest’obbedienza, potrà con lo stesso sistema vocalizzare i solfeggi ed applicarsi poi a i cantabili, che troverà situati in mezzo al canto declamato. Trovandosi in azione, il cantante declamatore s’incontrerà spesso in una difficoltà, qual è quella di fermar la voce al principio d’un cantabile sostenuto, dopo un primo tempo di forza, senza riposo. Deve por mente che non si sostiene un canto largo col respiro affannoso. Bisogna perciò ricorrere all’arte di risparmiar moto e voce nel primo tempo: moto, per calmare il respiro, voce per averla pieghevole dopo forzata. Dovrà dunque impegnarsi poco nel primo tempo, o cantarlo senza muoversi? No! Al contrario: questo nuocerebbe all’effetto, e non chiamerebbe l’attenzione dell’uditorio al suo cantabile, e dopo strapazzato il principio. Deve cominciare il suo pezzo con tutta la forza e l’energia che il medesimo richiede. Nell’agirlo con moto, deve procurarsi de’ piccoli riposi alla voce, ora voltandosi, ora parlando con quei che lo circondano, e nei rinforzi d’orchestra, meno che nelle finali, muover soltanto la bocca figurando di cantare; ed all’avvicinarsi delle cadenze scemare il moto situandosi a piè fermo in attitudine interessante ed analoga al suo dire, facendo giuocar la fisonomia, ed alla chiusa delle cadenze spinger la voce due o tre volte, che sembrerà aver cantato sempre come cominciò, ed in tal guisa troverà fresca la voce ed il respiro sufficientemente in calma per potere eseguire il suo cantabile. Finito questo, riprenderà il suo necessario calore, col quale potrà seguitare sino alla fine del pezzo.
Questo precetto potrà esser utile a tutti i cantanti animati, che si trovano in simile impegno, assicurandoli che questo ripiego, messo bene in pratica, non pregiudicherà in verun conto all’effetto.
Questo precetto potrà esser utile a tutti i cantanti animati, che si trovano in simile impegno, assicurandoli che questo ripiego, messo bene in pratica, non pregiudicherà in verun conto all’effetto.
I soprani che cantano di forza terranno lo stesso metodo di scuola in quanto ad esercitar l’estensione naturale della voce senza sforzarla oltre misura, ed avendo forti le corde centrali servirsi di quelle per declamare. Nei cantabili, si applichi al canto affettuoso.
I recitativi, parte tanto interessante in chi rappresenta nell’opera in musica, e particolarmente nella seria, devono esser detti senza fretta, ben marcati, e con molto colorito. Osservare di mantener la naturalezza del recitare, senza spingersi nel manierato, ed allontanarsi più che si può da certe inutili rifioriture che distruggono il sentimento e raffreddano l’interesse della scena: ma se in qualche momento l’affetto dominante sull’anima vi suggerisse un abbellimento adattato alla parola, e guidato dall’arte sarà bene impiegato, e ne sentirete nel tempo istesso penetrato l’uditorio con un moto di generale approvazione. Fatto dove non cade, e senza un perché, divien disgustoso. Il buon senso deve essere il Mentore dell’attore o cantante, e rifletta che declamando ragiona.
Il canto affettuoso è applicabile a chi, dotato d’una voce flessibile, delicata ed omogenea, vi aggiunge un sentimento animato e naturale a spiegar le passioni del cuore. Da questo proviene “Il cantar che nell’anima si sente”.
Le voci dedite a questa qualità di canto sono il soprano, il tenore ed il contralto: queste possono servire all’opera seria e semiseria, o sentimentale. Nella seria però, eccettuando il tenore, a meno che questo non prenda le parti amorose. Dotato lo scuolaro delle accennate prerogative, deve basare i suoi principî sul portamento di voce, sulle legature e sui forti e piani. Deve procurare ne’ suoi primi esercizî di non appoggiar mai la voce sopra a note deboli o stridenti: mai sforzarla, ed esaminare per mezzo di scale se questa rende in qualche nota suono difettoso, per nasconderla poi con lo studio all’orecchio altrui.
Il canto affettuoso è applicabile a chi, dotato d’una voce flessibile, delicata ed omogenea, vi aggiunge un sentimento animato e naturale a spiegar le passioni del cuore. Da questo proviene “Il cantar che nell’anima si sente”.
Le voci dedite a questa qualità di canto sono il soprano, il tenore ed il contralto: queste possono servire all’opera seria e semiseria, o sentimentale. Nella seria però, eccettuando il tenore, a meno che questo non prenda le parti amorose. Dotato lo scuolaro delle accennate prerogative, deve basare i suoi principî sul portamento di voce, sulle legature e sui forti e piani. Deve procurare ne’ suoi primi esercizî di non appoggiar mai la voce sopra a note deboli o stridenti: mai sforzarla, ed esaminare per mezzo di scale se questa rende in qualche nota suono difettoso, per nasconderla poi con lo studio all’orecchio altrui.
Il canto affettuoso è appoggiato al centro della naturale estensione di voce, come appunto ce ne serviamo parlando, nello spiegar le passioni. Il far pompa di grande estensione in questo genere di canto è ammesso di rado, e facendolo, servirsene per lo più nelle cadenze scoperte per usarne con dolcezza. Esercitatosi dunque ne’ piani e rinforzi, applicarsi con pazienza a renderla obbediente in tutti i passi legati e nei salti senza mai urtare nella durezza. Legato sempre deve esser questo canto, purché non penda nello strascicato, che allora caderebbe nello smorfioso. Vocalizzar deve sempre lo scuolaro coi piani e forti, e naturalizzarsi con la dolcezza, anche nelle note acute. Avvezzarsi a secondar la parola con quell’intelligenza ed espressione che la medesima richiede. Studiare a riprender fiato, cosa molto essenziale nel canto, e cercarne ben l’intervalli per non spezzare note, sillabe e parole; procurare ancora che ne resti a sufficienza nelle finali.
Un cantante che in questo genere possa chiamarsi finito, diviene impagabile perché è raro: questo è quel canto che cerca le vie del cuore nello spettatore, e vi s’insinua a segno di farlo palpitare alle finte pene dell’attore.
Direi che se Apollo avesse posseduto le particolarità tutte del canto affettuoso, le orecchie di Mida, quantunque bestiali, avrebbero ripugnato a giudicarlo vinto da Pane.
Il canto brillante è adattato alle voci dotate di una naturale agilità, facile ed estesa: applicabile questa qualità è all’opera buffa, tanto nei soprani, che nei tenori sfogati, e che abbiano buoni falsetti. Devono ancor questi cominciar la loro scuola col riscontrare la naturale estensione della voce, e renderla poi con l’esercizio tutta equilibrata, per piegarla come e dove si vuole, coi piani e forti. I loro vocalizzi devono esser sempre ondulativi, cioè ora piano rinforzando, e dal rinforzo ritornare al piano, e così sempre alternativamente. Ridotta la voce a tale ubbidienza, i soprani potranno a poco a poco tentare di acquistar note negli acuti, con l’esercizio di scale veloci in salire. Queste sono utili al canto variato, cioè per cantar pezzi con variazioni: e siccome la voce agile in natura, si piega con facilità a far molte note, deve con lo studio il cantante di questo genere pervenire a contraffare uno strumento che suoni di mano.
Direi che se Apollo avesse posseduto le particolarità tutte del canto affettuoso, le orecchie di Mida, quantunque bestiali, avrebbero ripugnato a giudicarlo vinto da Pane.
Il canto brillante è adattato alle voci dotate di una naturale agilità, facile ed estesa: applicabile questa qualità è all’opera buffa, tanto nei soprani, che nei tenori sfogati, e che abbiano buoni falsetti. Devono ancor questi cominciar la loro scuola col riscontrare la naturale estensione della voce, e renderla poi con l’esercizio tutta equilibrata, per piegarla come e dove si vuole, coi piani e forti. I loro vocalizzi devono esser sempre ondulativi, cioè ora piano rinforzando, e dal rinforzo ritornare al piano, e così sempre alternativamente. Ridotta la voce a tale ubbidienza, i soprani potranno a poco a poco tentare di acquistar note negli acuti, con l’esercizio di scale veloci in salire. Queste sono utili al canto variato, cioè per cantar pezzi con variazioni: e siccome la voce agile in natura, si piega con facilità a far molte note, deve con lo studio il cantante di questo genere pervenire a contraffare uno strumento che suoni di mano.
Arrivato in questa guisa ad essere padrone di maneggiare la voce sfidando le difficoltà, si passerà alla partita di situare poche parole sotto molte note.
Considerando che con questo metodo di canto ancora si parla e si rappresenta, bisogna necessariamente che resti intellegibile quello che si dice. La parola perciò deve esser divisa in sillabe, e queste devono esser disposte sotto le note in maniera che una cosa non distrugga l’altra, cioè che la parola non guasti la frase del canto, ed il canto non confonda la parola. Combinato bene quest’innesto, resterà chiaro quanto si spiega, e più facile ne diverrà l’esecuzione.
Considerando che con questo metodo di canto ancora si parla e si rappresenta, bisogna necessariamente che resti intellegibile quello che si dice. La parola perciò deve esser divisa in sillabe, e queste devono esser disposte sotto le note in maniera che una cosa non distrugga l’altra, cioè che la parola non guasti la frase del canto, ed il canto non confonda la parola. Combinato bene quest’innesto, resterà chiaro quanto si spiega, e più facile ne diverrà l’esecuzione.
Nel vocalizzo la scuola di canto proibisce le vocali I e U: restano l’A, E e O, ma l’A è preferibile alle altre, perché la bocca nel profferirla, restando aperta, la voce ne sorte fuori più libera.
Questa qualità di canto va accompagnata sempre dalla grazia e compostezza del viso. Non far mai conoscere che costa fatica, ma sembrar sempre di cantare scherzando. Arrivato con l’arte il cantante di questo genere a perfezionarvisi, potrà godere di un posto elevatissimo nell’opera buffa. E’ meglio esser perfetto in un genere, che abbozzato in cento, ed in giornata siamo molto scarsi di artisti per tale opera.
In ogni scuola di canto è necessario consultare spesso lo specchio, ed io consiglierei a tutti gli scuolari di tenerlo sempre davanti agl’occhi, ed in particolare sui principî della scuola. I vizî si prendono senza accorgersene, ed una volta presi difficilmente si tolgono.
Oltre quelli che possono provenire da tutto ciò che costituisce il meccanismo della voce, come i denti, la lingua, il palato, le narici, le tonsille e la laringe organo principale, vi sono quelli della fisionomia e di tutte le parti del volto: quelli del collo, delle spalle, della testa, e di tutta intiera la figura. Questi null’altro ve li farà conoscere, che l’occhio frequente allo specchio. I primi son nocivi a suoni tramandati per gli organi della voce, ed i secondi portano la scompostezza di tutta la macchina, e vi rendono mostruosi agl’occhi altrui.
Una bocca torta per mandar fuori la voce; accigliarsi ed allargar le narici nel solfeggiare; torcer la testa; mandar in alto gli occhi e spalancar di troppo la bocca come se la voce dovesse uscire come lo sprillo d’una fontana; mandare in avanti il collo e pressar verso i denti il labbro inferiore; accompagnarsi il canto coll’alzare ed abbassare le spalle; contorcersi con l’intiera figura e con moti che sembran convulsi; tutti vizi presi in principio di scuola, e che comunemente vediamo. Lo specchio, che a nessuno li nasconde, può divenirne il miglior correttore.
Una bocca torta per mandar fuori la voce; accigliarsi ed allargar le narici nel solfeggiare; torcer la testa; mandar in alto gli occhi e spalancar di troppo la bocca come se la voce dovesse uscire come lo sprillo d’una fontana; mandare in avanti il collo e pressar verso i denti il labbro inferiore; accompagnarsi il canto coll’alzare ed abbassare le spalle; contorcersi con l’intiera figura e con moti che sembran convulsi; tutti vizi presi in principio di scuola, e che comunemente vediamo. Lo specchio, che a nessuno li nasconde, può divenirne il miglior correttore.
Fra i maestri che insegnano e coltivano il canto, pochi son quelli che secondano la natura e l’inclinazione dello scuolaro: un metodo solo è il suo, e quello deve applicarsi a tutti, come sella per tutti i cavalli. Fortunato colui che s’incontra con la natural disposizione nel metodo del maestro, altrimenti sarà costretto a nuotar contro corrente. Ve ne son di quelli (ed in tutti i paesi) che insegnano a cantare perché conoscono la musica ed accompagnano, ma che sanno di canto quant’io di chimica. Questi non osservano né qualità di voce, né estensione, né se l’orecchio è suscettibile all’intuonazione, materia principale che va unita con quella della voce, ma le basta che il giovine o la fanciulla voglia imparare a cantare, per presentarle i soliti principii di musica, e questi accompagnarli con una fissa stampella, o tasto del cembalo, pestato forte perché la voce vada sempre con quello, e dietro a quello. Con tal sistema si passa di seguito ai solfeggi, e questi vengono nella stessa guisa scorsi ed accompagnati. Se lo scuolaro stuona, il maestro, che stuonerà più di lui, lo corregge con una voce da far fuggire. Così insegnano i principii del canto, e proseguono con tal sistema ad insegnare cavatine, arie, duetti, terzetti ec. Lo scuolaro in poco tempo giunge a cantar tutta sorta di pezzi, sotto questa bella scuola, ed eccolo già fuori di tutela. Si slancia subito in mezzo alle società, a strapazzar tutti i pezzi che di recente si sentono in teatro, e se a questo vuol dedicarsi, può farlo subito, perché è già divenuto cantante: quello che manca, s’impara con un poco di pratica sulla scena. Là è il fondaco assortito di tutti i requisiti che formano un artista finito. Con questa massima, e con tal sapere, si gettano alla pubblica berlina questi disgraziati, così bene istruiti e consigliati. Quale divenga la loro riuscita, ognuno che ha buon senso può immaginarlo.
Il maestro di canto non deve avere alcun metodo stabilito, ma bensì la scienza e la comunicativa di stabilirne uno allo scuolaro, a seconda della naturale inclinazione, ed alla qualità della voce.
In poco numero, ma vi sono i maestri che conoscono il canto; sanno cantare e capaci sono di formare un allievo; ma siccome questi vengono da’ signori ricercati, e da questi ben pagati, è difficile, per conseguenza, che si addossino il carico di coltivare uno che abbia tutte le buone disposizioni; e se lo fanno, per lo più lo trascurano poi per mancanza di tempo, quando più avrebbe bisogno lo scuolaro d’essere assistito. Allora succede che in luogo di progredire, si guasta, perché necessitato di fare avanzamenti per mettersi in linea d’artista, divien vizioso, copiando ora il metodo d’uno, ora dell’altro, e così variando di genere in genere, non ne stabilisce mai uno a se medesimo.
I conservatorii, dai quali escono continuamente degli eccellenti professori, da molto tempo in qua non ci somministrano alcun cantante di vaglia, ma potranno farlo in appresso per mezzo di ulteriori misure. Bisogna perciò convincersi che i buoni cantanti che attualmente fanno onore alla professione, non sono scuolari che di se stessi e del proprio genio, meno pochi che sono allievi di qualche maestro che ne abbia presa interessantissima cura.
FINE PARTE PRIMA – di prossima pubblicazione la Parte Seconda