venerdì 20 marzo 2020

Il metodo di canto del tenore Piero Menescaldi, artista della Scala di Milano ("Lyrica", 1936)

 

Piero Menescaldi studiò canto a Milano con il tenore Giuseppe Russitano. Debuttò al Sociale di Conselice (Ravenna) nel settembre 1921 come Duca in "Rigoletto" e cantò sino al 1939. 
Nel 1924 fu ingaggiato dal Teatro alla Scala di Milano, presso il quale si esibì fino al 1933. Cantò nelle prime delle opere "Il Diavolo nel campanile" di Adriano Lualdi (Scala di Milano, 22 aprile 1925) e "La Bella e il Mostro" di Luigi Ferrari-Trecate (Scala di Milano, 20 marzo 1926). 
Cantò soprattutto nei teatri italiani (oltre alla Scala, anche nei teatri Bellini di Catania, Comunale di Bologna, Grande di Brescia, Petruzzelli di Bari, Massimo di Palermo, Argentina di Roma, Carlo Felice di Genova, Regio di Torino) e all'estero (nei Paesi Bassi, al Gebouw Voor Kunsten en Wetenschappenin a L'Aia nel 1935 come Des Grieux in "Manon Lescaut", e in Inghilterra, al Covent Garden di Londra nel 1936, sempre come Des Grieux, sotto la direzione di Constant Lambert). 



Nel 1936, sulla rivista LYRICA (il numero di aprile-maggio-giugno-luglio), apparve un interessante articolo di Achille Gambetta intitolato: "La méthode de chant du ténor Piero MENESCALDI de la Scala de Milan".


L'articolo comincia così, con qualche sintetica informazione artistica di carattere biografico:

«Il tenore Piero Menenscaldi ha cantato alla Scala di Milano sotto la direzione del maestro Toscanini, "La Traviata", con il soprano Gilda Dalla Rizza ed il baritono Benvenuto Franci, e nella ripresa della "Madama Butterfly" con Rosetta Pampanini. Toscanini volle Pietro Menescaldi come interprete di Pinkerton; in seguito Toscanini diede al tenore Menescaldi il temibile ruolo del « Cavaliere Des Grieux »  della "Manon Lescaut" di Puccini e, sempre sotto la direzione del Maestro, fu un perfetto « Julien » nella "Louise", con Gilda Dalla Rizza e il grande Marcel Journet. Un tale servizio alla Scala di Milano, sotto l'egida di Toscanini, e tutti i successi ottenuti dal tenore Menescaldi nei più grandi teatri italiani mostrano l'indiscusso valore artistico di questo buon cantante. Queste parole sono un semplice omaggio alla verità, e bisogna interpretarle in questo modo, perché la pubblicità più o meno personale non trova posto in Lyrica, dove si lavora per l'Arte del canto (con la A maiuscola), con un vero culto sacro. Quando ho comunicato al mio amico di vecchia data Menescaldi l'intenzione di consacrare al suo metodo di canto un articolo su Lyrica, si è mostrato davvero felicissimo di poter manifestare la sua ammirazione per l'Académie du Chant, e di sottoporle il suo metodo di emissione e di lavoro.»

Poi si addentra sul metodo di canto e d'insegnamento del canto di Menescaldi, nel quale si possono evidenziare alcuni punti nevralgici:


1. UN METODO SOLO PER CANTAR BENE, che va adattato saggiamente, con alcune dovute differenze nei dettagli, ad ogni allievo che è diverso da un altro:

«In primo luogo Menescaldi afferma questo: esiste un buon metodo di canto "e non ne possono esistere altri"; come esiste un solo modo di emettere correttamente la voce, e di ben impostare i suoni. Questo come base.
In una parola esiste un solo modo per cantare bene; ma, aggiunge, se tutto ciò è esatto, è anche vero che ogni allievo possiede una personalità vocale, una diversa conformazione degli organi vocali, e per arrivare al risultato desiderato (quello di emettere bene la voce e di cantare bene) è impossibile seguire pertanto uno stesso sistema per tutti. Lo scopo è uno solo ma il cammino per arrivarci non può essere lo stesso per tutti. "Bisogna adattare il sistema di emissione alle possibilità vocali dell'allievo ed al carattere della sua voce";  bisogna conformare la disciplina e le difficoltà dell'emissione tipo all'organo personale dell'allievo


2. IMPORTANZA DI TROVARE LA MASCHERA (colore, bellezza, risonanza, proiezione, squillo della voce) per poter cantare senza bisogno alcuno di microfono sfruttando le risonanze naturali della voce:

«Per questo motivo, nell'insegnamento del canto (...) un buon professore (...) deve (...) cercare "la più bella qualità" dei suoni attraverso la ricerca del "migliore colore" della voce. La posizione della maschera durante l'emissione deve essere naturale, ma in ogni caso "piuttosto seria che sorridente" e "soprattutto occuparsi della bellezza dei suoni" (...) Perché la buona posizione della maschera, della bocca e delle labbra è semplicemente quella con cui è possibile produrre nell'emissione della voce i suoni più belli.»

3. DAI VOCALIZZI AGLI SPARTITI:

«Come base di lavoro Menescaldi approva i vocalizzi senza però farne un dogma, perché dopo 6 mesi di lavoro con soli vocalizzi (8 mesi in casi eccezionali), l'allievo può, e deve, cominciare a cantare delle frasi, delle arie, dei recitativi per arrivare in seguito allo studio degli spartiti. Tutto ciò naturalmente sotto l'egida del professore come guida. Dunque se il metodo del professore è buono e se si adatta ai mezzi, e alla costituzione vocale dell'allievo e se quest'ultimo è intelligente e dotato di buoni mezzi vocali, dopo 6 mesi di lavoro  deve essere arrivato al punto di dedicare un quarto d'ora ai vocalizzi e il resto del tempo prima al lavoro su delle frasi, e in seguito al lavoro su delle opere liriche. Perché secondo il parere del tenore Menescaldi, l'epoca attuale non può più intendersi coi vetusti metodi di lavoro, ossia tre lunghi anni di soli vocalizzi nel passato più recente, e otto o dieci anni nella notte dei tempi! Il lavoro deve essere fatto con le parole ossia lavorando dapprima con le frasi più adatte e in seguito sugli spartiti, e quando l'allievo riesce ad emettere i più bei suoni sulle parole ch'egli pronuncia e questo su tutta la gamma, avrà fatto un lavoro utile perché sarà pronto per cantare. (...)»

4. VOCALI (adattamento vocalico) nel canto lirico:

«Tuttavia, per cominciare a lavorare con una voce si deve "vocalizzare" e con le vocali "A", "O", ed "Ou" (l' »U » pronunciata all'italiana). Come vocalizzi ci si può fermare agli arpeggi, scale, intervalli di quinta e d'ottava con un po' di "agilità" e soprattutto dei suoni ben legati. Insistere soprattutto sulle vocali sopracitate. Usare anche le vocali "I" (pronunciata come la "U" francese ) e la "E" (pronunciata col colore della "E" muta)

5. PASSAGGIO DI REGISTRO ALLA ZONA ACUTA, preparato dal mi bemolle e arrotondato verso "O" sul fa-fa diesis:

«Per quanto riguarda il passaggio, Menescaldi comincia ad arrotondare i suoni nei vocalizzi a partire "dal mi bemolle"; in questo modo la vocale "A" diventa, essa stessa, quasi una "O" molto larga. Dunque il "fa" e il "fa diesis" possono e devono avere lo stesso colore della quinta acuta.  Cantando gli spartiti arrotondare su queste note la vocale "A" nella stessa maniera, e dare a tutte le vocali una sonorità più rotonda, "più scura" come si dice in italiano. In questo modo le note di passaggio "passano da sole" (...)»

6. POSIZIONE ROTONDA (NON A SORRISO):

«E soprattutto cantare sempre con una "voce rotonda e sonora" senza "mai" cercare un'emissione "sul sorriso" che produce una voce chiara, aperta, con dei suoni piatti, sbiancati e tutti indietro. Perché per essere ben in avanti e ben in maschera (per usare questi due termini familiari) la voce dev'essere molto rotonda "e sostenuta col massimo della forza [dei risuonatori]", la qual cosa produrrà "il massimo della proiezione in testa, grazie al fiato".»

7. IMPORTANZA DELLA RESPIRAZIONE E DEL SOSTEGNO DEL FIATO:

«Naturalmente la respirazione deve essere ampia (...) e questa è la cosa più importante per una buona emissione della voce. Respirazione diaframmatica ed appoggiata naturalmente sul diaframma, ma anche tutte le cavità del torace devono collaborare alla forza del fiato che deve sostenere i suoni verso la parte alta della maschera, perché tutti i risuonatori nasali, insieme a tutti i risuonatori della maschera senza distinzione alcuna, devono prendere parte alla formazione del suono nella corretta emissione (...)»

(trad. it. di Carolina Barone)


Una lettura interessante di un metodo tradizionale per l'epoca, in gran parte condivisibile, che sembra ricalcare quello esposto nel 1932 dal grande tenore Aureliano Pertile (quattro anni prima), come si può vedere leggendo i seguenti articoli apparsi sui nostri blog che riportano e spiegano il metodo del tenore di Montagnana (Padova):



In entrambi i casi si parla dell'importanza dei suoni ben proiettati "in maschera", belli e rotondi (non a sorriso), della necessità di un equilibrato adattamento vocalico nel canto lirico (che si differenzia rispetto al meccanismo del parlato comune) senza perdere la chiarezza dell'ottima dizione e intellegibilità del testo cantato, della necessità di "inscurire" coprendo la voce nella seconda ottava salendo verso la zona acuta (per soprani e tenori, cominciando a preparare il passaggio dal mi bemolle e arrotondando ad "O" anche sul fa-fa diesis), tutto questo senza dimenticare mai la respirazione che (a differenza di quella usata nel parlato puro) dovrà essere più ampia nell'inspirazione e più lentamente dosata e ben sostenuta nell'espirazione.

Solo in questo modo si potrà cantare liricamente per decenni senza alcuna fatica, preservando il proprio prezioso strumento vocale, un ampio repertorio lirico comprendente le più impervie aria d'opera e impersonificare i ruoli operistici maggiori pieni di difficoltà tecniche ed interpretative da superare sul palcoscenico, senza rischiare di non arrivare in fondo a una recita o di perdere la voce dopo qualche anno di attività. 
E solo così si potrà mantenere la voce in salute fino ad età matura: esempi modello sono stati, tanto per citarne solo alcuni, i tenori Beniamino Gigli, Giacomo Lauri-Volpi, Carlo Bergonzi, Ugo Benelli, ma anche il soprano Magda Olivero, il mezzosoprano Fedora Barbieri, i baritoni Mattia Battistini, Giuseppe De Luca, Carlo Tagliabue, il basso Cesare Siepi, che hanno cantato per un arco di tempo compreso tra i 40 e i 50 anni di carriera!


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