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Il Maestro PUCCINI al lavoro
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- IL MAESTRO AL LAVORO -
Appena aveva messo la parola «fine» a un’opera, il Maestro si concedeva un periodo di libertà, e col suo florido aspetto giovanile aveva tutta l’aria di uno studente in vacanza.
Aveva finito l’opera, e si divertiva e si riposava. Si riposava alzandosi presto alla mattina, facendo qualche corsa in automobile, portando a borbottare lungo il lago qualcuno dei suoi canotti a motore, perdendosi per delle mezze giornate alla caccia alle folaghe, e tornando a casa stanco morto. Anche il riposo è un’opinione. Il riposo consiste, quasi sempre, nel fare un lavoro al quale nessuno ci obblighi.
E il pensiero per l’esito dell’opera nuova? E l’ansia per la messa in scena? E l’attesa del giudizio del pubblico che dovrà decidere di qualche anno di lavoro appassionato e ardente? Nulla. Quando aveva scritto l’ultima nota dell’ultima scena, egli abbandonava la nuova creatura al suo destino. Quello che aveva da fare, il Maestro l’aveva fatto: adesso toccava a lei. L’aveva amata troppo intensamente nel periodo della gestazione: ora che l’opera era nata, egli sentiva il bisogno di un po’ di libertà. Ma pensava a ricominciare.
«Io non posso stare senza scriver musica» — mi confessava Puccini — «e siccome non sarei capace di mettermi a scrivere della musica sinfonica, cosi mi metto subito alla ricerca di un’altra opera. E' il mio modo di vivere, di appassionarmi, di esaltarmi, di godere. E penso che la Provvidenza mi aiuti col farmi trovare un «soggetto» simpatico, vibrante, pieno di vita, di commozione, di sentimento, e di umanità, sopratutto di umanità. Ma è un tormento la ricerca d’un libretto!»
Eppure non era il numero che gli mancasse. Ogni mattina, quando sedeva per la colazione, Puccini era sicuro di trovare sulla tavola, oltre alla corrispondenza e ai giornali, almeno un libretto d’opera. Questo nei giorni normali, nelle occasioni solenni i libretti erano due o tre. Puccini li guardava tutti: non li leggeva completamente, perché aveva famiglia e conosceva i doveri di un buon padre, che sono quelli di curare la propria salute, ma li scorreva per vedere se qualcuno avesse un lampo di originalità, una cosa nuova e viva. E lo aspettava quasi sempre una malinconica delusione.
Puccini dava giustamente al libretto una importanza grandissima. Il libretto deve essere limpido, chiaro, evidente, vario di vicenda, interessante: un aiuto al musicista, non soltanto un pretesto. E deve essere sopra tutto teatrale. L’opera lirica non è fatta soltanto di musica, è fatta di episodi commentati, interpretati dalla musica. In questo, Puccini aveva un occhio straordinario: il senso del teatro era in lui rapidissimo e preciso. Un accenno gli bastava a rivelargli una scena, a suscitargli una visione completa. Un movimento di personaggi gli dava immediato lo spunto musicale che sarebbe venuto a colorire la situazione. E allora si metteva a tempestare di osservazioni, di note, di richiami i margini delle pagine, e tramutava il libro in una specie di garbuglio geografico in cui egli solo riusciva a capire qualche cosa. E talvolta non capiva piu nulla neanche lui, preso al laccio dei suoi geroglifici.
Ma prima di scegliere un libretto, quante indecisioni, quanti pensieri, quante riserve! E spesso, quando aveva ben bene deciso e fatto cominciare il lavoro di poesia, lo rifiutava. (...)
Ma quando il libretto veniva scelto in modo definitivo, allora il Maestro vi si metteva con ardore, e cominciava subito col volerlo modificare. Era esigente, imperioso: aveva le sue idee e le voleva far trionfare.
L’ultimo atto della "Bohème", come era stato presentato dai due librettisti, non gli piaceva: egli aveva in mente uno sviluppo musicale che non si intonava col genere di morte che i poeti avevano trovato per Mimì, e lo spiegò. Giacosa disse: «Va bene» e rifece l’atto. Ma Puccini non era contento ancora, e arrossendo domandò una nuova modificazione. Giacosa, gentilissimo e instancabile, gli rifece l’atto per la terza volta. Puccini lo prende, va a casa, si mette a musicarlo: no, non gli viene, non è cosi che egli sente lo strazio di quella morte.
La mattina dopo va da Giulio Ricordi, col viso duro, indeciso fra il desiderio di domandare un’altra modificazione, e la intima coscienza di essere un prodigioso rompiscatole. Finalmente si fa coraggio, e quando Giulio Ricordi sorpreso di vederlo a quell’ora gli domanda: «Cosa c’é di nuovo?» Puccini gli spiega furiosamente in qual modo egli senta quel quarto atto, sicurissimo di sollevare le ire dell’editore, ma deciso a insistere.
Invece Giulio Ricordi lo ascoltò con grande attenzione, e quando il Maestro tacque egli esclamò:
— E giusto! Ha ragione!
E Giacosa gli accomodò l’atto per la quarta volta. Quella povera Mimì prima di morire definitivamente aveva provato tutte le morti possibili.
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A Torre del Lago, quando stava per comporre un opera, il Maestro lavorava ogni giorno. Ma senza sforzo: se l’inspirazione non veniva, via! La vita a Torre del Lago era di una calma e di una tranquillità da convento. Puccini vi stava con la moglie e il figlio Tonio. Si alzava tardi, possibilmente, perché lo spettacolo dell’aurora lo avrebbe commosso troppo, e quasi ogni mattina portava a borbottare sul lago qualcuno dei suoi tre canotti a motore, o faceva una corsa in automobile in mezzo alla pineta fino alla marina, poi tornava a colazione, leggeva la corrispondenza, sfogliava i giornali, e si preparava dinanzi una sull’altra le lettere alle quali doveva rispondere. Perché Puccini era in questo di una regolarità impressionante: ogni giorno si allineavano sul suo tavolo le lettere per la risposta. Poi magari rimanevano li per mesi, per anni forse, ma questo non aveva importanza: la regolarità c’era.
Nel pomeriggio, se aveva voglia, dopo d’essere stato a caccia si metteva al piano a comporre. Ma il maggior lavoro lo compiva nelle ore tranquille quando gli altri dormivano. Alla sera, dalle dieci all’una o alle due dopo mezzanotte, egli si metteva al piano con dinanzi una immensa provvista di caffé e di sigarette, con una gran matita e dei grandi fogli di carta rigata dinanzi, e tormentava nervosamente la tastiera cavandone trilli di letizia, e larghi sospiri di tristezza, e spasimi d’amore, e vampate di ribellione, e un gocciolar di note stanche che sembravano spremute da occhi di pianto.
A volte il suono non rispondeva all’espressione che il Maestro domandava alla musica. E le mani picchiettavano inquiete, e lo stesso ritmo svariava nervoso sotto al tentativo, in cerca di un accento che non trovava la sua via. Allora, nel silenzio, dalla granda stanza a terreno in riva al lago quella cascata di note si diffondeva per le finestre aperte sulla strada del paesino, si spandeva nella notte, giungeva alle case intorno: e qualche giorno dopo, andando in giro, il Maestro sentiva canticchiare da un monello o da qualche fresca ragazza toscana un accenno, uno spunto dell’opera ancora non nata.
Cosi per le strade di Torre del Lago si cantarellava la musica di Puccini senza che nessuno ne avesse udito le opere a teatro. Il suo primo successo popolare cominciava con questo contrabbando innocente.
Questo in primavera, in estate, in autunno. All’inverno invece, quando non era chiamato in giro per il mondo da qualche sua opera nuova o da qualche ripresa importante, capitava a Milano per andare a teatro, fare i conti con l’editore, passeggiare in Galleria, e prendere qualche raffreddore. E anche per lavorare, ma senza impegno.
Nel suo appartamento al secondo piano di via Giuseppe Verdi, nel vasto salotto da lavoro, sotto il ritratto del bisavolo creatore della dinastia dei Puccini, fra un piano con la coda enorme, un tavolo dolorante sotto al peso della musica, e dei fogli di carta spettacolosi, il maestro attendeva specialmente al lavoro di strumentazione.
Aveva dinanzi a sé, sul leggìo, la prima bozza dello spartito, tempestata di segni, di note schiacciate come mosche sbattute sopra la carta mortifera, di richiami, di pezzetti di carta incollati, di avvertenze. Aveva di fianco il libretto, anch’esso lardellato di appunti, di striscioni, di segni fantastici, spaventosi, intraducibili talvolta anche per il Maestro, il quale di quando in quando vi si fermava, guardava, scrutava, tentava, tormentato:
— O che diavolo ho voluto scrivere, qui?
Poi, di colpo, riprendeva: le mani correvano sulla tastiera che rispondeva alla carezza con dei gridetti, dei suoni, dei trilli. E allora, a poco a poco, o di furia, nervosamente, le immense pagine della partitura si andavan popolando di bollicine nere, d’archi, di punti, di chiavi, d’accidenti. Ma tutto cio senza regola, tra il fumo di una sigaretta, un sorso di te, una giravolta sullo scanno per fermarsi a guardar la luce fuori dalla finestra, un occhiata al giornale, a una rivista di caccia, qualche buffetto al gilé brinato dalla cenere della sigaretta. Poi, musica!
La scrittura musicale di Puccini era atroce. All’annunzio di una sua opera nuova, era in tutti gli appassionati un fervore di lieta attesa. Ma v'erano a Milano alcune famiglie che tremavano: le famiglie dei copisti che dalla partitura del Maestro dovevano rilevare le note.
Per comprendere questo terrore bisogna vedere le pagine che uscivano dalle mani di Puccini. Tremende.
(da: Arnaldo Fraccaroli - LA VITA DI GIACOMO PUCCINI - Milano, Ricordi 1925)
