L'OPERA ITALIANA, A CONFRONTO CON QUELLA FRANCESE, NEL 1739-40:
L'opera italiana è molto differente da quella francese, sia per la scelta dei soggetti, sia per la costruzione della favola, sia per il numero e la specie degli attori, come pure il modo di metterli insieme. Non è, come da noi [in Francia], una serie di ruoli fissi, scritturati per opere analoghe che vengano rinnovati quando sia il caso. Qui [in Italia] l'impresario che vuol mettere su un'opera per un inverno, ottiene il permesso del governatore, prende in affitto un teatro, scrittura da diverse parti voci e strumenti, contratta con gli operai e lo scenografo, e finisce spesso per far bancarotta come i nostri direttori di compagnie di provincia. Per maggiore sicurezza, gli operai si fanno assegnare in pagamento dei palchi, che poi affittano per conto loro.
In ciascun teatro si eseguono due opere ogni inverno, a volte tre; sicché facciamo il conto di vederne circa otto nel corso del nostro soggiorno [in Italia]. Ogni anno sono opere nuove e nuovi cantanti. Non si vuol rivedere né un'opera, né un balletto, né una scena, né un attore che sia stato visto già l'anno prima, a meno che non si tratti di qualche eccellente opera di Vinci, o qualche voce famosissima. Quando il celebre Senesino apparve a Napoli l'autunno scorso, tutti gridarono: "Che è questo? È un attore che abbiamo già visto, canterà al vecchio modo". Egli ha la voce un po' fievole, ma a mio giudizio è quanto ho udito di meglio per lo stile del canto. (...)
Vi ho detto che in Italia ignorano cosa significhi riprodurre o stampare qualunque musica, sia vocale sia strumentale. Ne avrebbero da fare troppe; i concerti, le sinfonie per grande coro piovono da ogni parte. Per quanto riguarda le voci, il loro numero è limitato; l'opera italiana si compone, di regola, soltanto di una mezza dozzina di personaggi, senza tutto quell'apparato di cori, di feste cantate e di danze che si incontra nelle nostre [in Francia].
Qui invece [in Italia] è più numerosa e variata l'orchestra; ma gli strumenti non sono né vari né preziosi, mentre le belle voci si pagano un prezzo esorbitante, oltre quello che bisogna sborsare per farle venire anche da molto lontano. I signori castrati sono zerbinotti graziosissimi, pieni di albagia, i quali i loro affari non li hanno dati via per nulla.
In un'opera [in Italia] ci sono tre o quattro voci di "soprano" e un "contralto", maschi o femmine, oltre ad un "tenore" per le parti di re. Le voci di basso non si usano; sono rare e poco apprezzate. Se ne servono solo nelle farse; dove il ruolo del comico è di regola sostenuto da un basso.
I tre generi di voce citati sono più alti di una terza o di una quarta di quelli che si trovano tra noi [in Francia]. I contralto [in Italia] sono rari e molto apprezzati; arrivano fino al 'si-mi' e sono di un genere diverso dai nostri [in Francia]. Non vi è genere di voce nota in Francia, che potrebbe riprodurre il loro modo di cantare. Sono voci di donna, in tono da mezzosoprano, però più basso di qualunque dei nostri [in Francia]; essi cantano, non già nell'ottava superiore propria delle donne, ma all'unisono con gli uomini.
A volte la voce dei castrati subisce la muta, ossia si abbassa nell'invecchiare, e da soprano che era diventa contralto. Non è raro che, nella muta, la perdano addirittura del tutto; sicché non rimane loro più nulla del baratto fatto, e l'affare si dimostra assai svantaggioso. Subiscono l'operazione verso i sette o otto anni; deve essere il bambino stesso a chiederla: la polizia ha messo questa condizione, perché la sua tolleranza apparisse un po' meno intollerabile. Diventano quasi tutti grandi e grassi come capponi, coi fianchi, il sedere, le braccia, il petto, il collo tondi e paffutelli come donne. Quando si incontrano in un gruppo di persone si rimane sbalorditi, quando parlano, a sentire uscire da questi colossi una vocetta da bambini. Alcuni sono molto graziosi; si fanno corteggiare e ricercare dalle donne, le quali, secondo quanto sostengono le cronache della maldicenza se li disputano per i loro talenti, che sono innumerevoli; e ne hanno, di talenti. Raccontano persino che uno di questi "semiviri" presentò al papa Innocenzo XI una supplica per ottenere il permesso di ammogliarsi, adducendo che l'operazione era stata fatta male; il papa scrisse in margine alla domanda: "Che si castri meglio".
Bisogna essere abituati a queste voci di castrato per gustarle. Hanno un timbro chiaro e penetrante come quello dei chierichetti, e molto più forte; mi pare che cantino un'ottava più su della voce naturale delle donne. Queste voci hanno quasi sempre qualcosa di secco e di aspro, molto distante dalla dolcezza giovanile e pastosa delle voci di donna; ma sono brillanti, leggere, piene di splendore, assai forti ed estese. Le voci di donna in Italia sono di un genere analogo, estremamente lievi e flessibili; insomma, hanno lo stesso carattere della loro musica. Rotondità, non chiedetegliene, non sanno che cosa sia. Non parlate loro di quei mirabili suoni, che ci sono nella nostra musica francese, filati, continui, turgidi, e decrescenti sopra una stessa nota. Non vi capirebbero neppure, e tantomeno saprebbero eseguire tali suoni.
I DUE TIPI DI VOCE - 'DI TESTA' e 'DI PETTO' - DEGLI ITALIANI, E L'ARTE DELLE SFUMATURE E DEL "CHIAROSCURO", NEL 1739-40:
Gli italiani distinguono tuttavia due tipi di voce, e li chiamano: "voce di testa", fatta tutta di lievità ed adatta agli svolazzi che essi sanno dare alle loro variazioni musicali; "voce di petto", con suoni più schietti, più naturali e pieni. Per dirla in una parola, le voci sono in questo paese [l'Italia] gradevoli, modulate, seducenti al massimo; ma se si mettessero tutte dentro un alambicco, da tutto il miscuglio non si tirerebbe fuori una voce che possa neanche lontanamente paragonarsi a quella della [Catherine-Nicole] Lemaure. Benché sia partigiano zelante della musica italiana, son d'accordo con voi quando sostenete che quel genere di voce così rotondo, pieno, turgido, sonoro debba essere preferito a qualunque altro.
Le migliori che io abbia udito sono la Faustina, la Tesi, la Baratti; dei castrati, Senesino, Lorenzino, Marianini, Appianino, eccellente contralto, Egizietto, Molticelli, Salimbeni, Porporino, un giovane scolaro di Porpora, grazioso quanto la più graziosa delle fanciulle; dei tenori, Rabbi, il migliore tenore che esista, che riesce ad arrivare in su quanto [Pierre de] Jellyot*, e ottimo attore.
Nell'opera i sessi si scambiano facilmente; a Napoli, la Baratti faceva la parte di un uomo; qui invece sulla scena non tollerano donne; il buon costume non lo permette, e vuole soltanto graziosi fanciulli vestiti da donna; e, Dio mi perdoni, considerata l'inclinazione che in tutto il mondo si dimostra verso le femmine di teatro, ho un gran timore che a volte anche qui non si metta di mezzo la fornicazione. Talvolta queste bellezze sotto mentite spoglie non sono neppure tanto piccole. Marianini, che ha sei piedi di altezza, recita in una parte di donna al teatro Argentina; è la principessa più lunga che incontrerò in vita mia.
Quanto all'arte del canto, nessuno può meglio darvene un'idea dell'affascinante Vanloo [= Cristina Somis] se l'avete udita a Parigi. Non ha una voce molto estesa, in Italia se ne trovano molte più belle; ma nessuno la supera nell'arte di modularla con delicatezza e con gusto squisito.
Potete vedere che quasi tutti i ruoli, sia che il personaggio sia uomo o donna, sono per voci acute; esse sono registrate sempre in chiave di 'do' sotto il primo rigo; la chiave di 'sol', sul secondo rigo, serve soltanto per gli strumenti. Qui non adoperano mai la chiave di 'sol' sul primo rigo, praticata da noi. (...)
Essi [gli italiani] usano un metodo di accompagnamento che noi [francesi] non comprendiamo; ma che potremmo facilmente introdurre nella nostra esecuzione perché mette in rilievo tutto il valore della musica; esso consiste nell'arte del suono aumentato o diminuito, che vorrei chiamare arte delle sfumature e del chiaroscuro. Ciò si pratica sia insensibilmente, a gradi, sia d'un colpo. Oltre al forte e al piano, al fortissimo e al pianissimo, essi impiegano anche un "mezzo piano" ed un "mezzo forte", più o meno appoggiato. Ne vengono fuori dei riflessi, delle 'mezze tinte', che dànno un'incredibile grazia al colore del suono. (...)
Quasi tutte le loro arie sono per voce singola; in tutta un'opera vi saranno sì e no due o tre duetti, e quasi mai un terzetto. I duetti sono dedicati ai temi affettuosi e commoventi, alle situazioni più patetiche dell'opera; sono di una bellezza meravigliosa, e producono estrema commozione. Soprattutto in essi le voci ed i violini adoperano quel chiaroscuro, quell'insensibile rigonfiamento del suono, che sale di forza da una nota all'altra, fino al grado più alto, e poi torna ad una sfumatura estremamente dolce e commovente. Sono ammirate qui le cadenze, o punto d'organo, collocate nel finale di ogni aria per gli "assolo".
(...) io rimango della mia opinione, che cioè meno solenne è il genere, e tanto meglio la musica italiana riesce. Effettivamente, si sente che essa respira la gaiezza, e che in essa si trova come nel suo elemento. Mi piacciono anche le loro commedie, dove si mescolano il serio ed il comico. Ne è stata rappresentata una graziosissima, di Rinaldo da Capua, al teatro Valle, ed a Napoli ne ho vista una affascinante, di Leoardo Leo. Ritengo che noi [francesi] non riusciremmo a fare della musica allegra, per quanto possediamo ottime commedie di un genere un po' più elevato, prova ne siano le "Feste veneziane", che hanno veramente un tono da commedia; e Dio volesse che ce ne facessero spesso di simili!
Le migliori scuole di musica, o, per servirmi della loro terminologia, i migliori seminari per maestri di cappella, sono a Napoli. Di là, sono usciti Scarlatti, Porpora, Domenico Sarri, Porta, Leo, Vinci, Pergolesi, Gaetano Latilla, Rinaldo da Capua, e parecchi altri celebri compositori. Per le voci, la buona scuola si trova a Bologna; la Lombardia eccelle nella musica strumentale. Ho l'impressione che la musica italiana avesse raggiunto il suo apogeo sei o sette anni fa; qui il gusto cambia continuamente.
(Charles de Brosses - "VIAGGIO IN ITALIA, lettere familiari" [1] - Presentazione di Carlo Levi e Glauco Natoli - Parenti, 1957; ed. it. del testo originale in francese: Charles de Brosses - "Lettres familières écrites d'Italie en 1739 et 1740", Tome II - Librarie Académique, Paris 1869)
* cfr. Arthur Pougin - Un ténor de l'Opéra au XVIIIe siècle. Pierre Jélyotte et les chanteurs de son temps (Paris, Fischbacher 1905)
[1] N.B. Fra le lettere una s'impone all'attenzione dello storico della musica: quella lunghissima che reca il n.51 e che de Brosses ha indirizzato ad un certo "monsieur de Maleteste", nella quale perlappunto espone le differenze tra l'opera italiana e quella francese.
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